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Ma come fanno i NOCS…

18 Settembre 2011
di Massimo Michele Greco

 

… a stare a chiappe nude, a percuotersele fino a renderle insensibili per poi mordersele e a rimanere «veri uomini però»? Era una domanda che Dalla e De Gregori ci ponevano qualche decina di anni fa sui marinai, ma lì  si trattava di «baciarsi tra di loro». A dare retta a ciò che si legge sui giornali, le effusioni tra NOCS erano parecchie cruente, altro che bacetti. Certo, qui si tratta di «un gruppo speciale della Polizia di Stato addestrato per portare a termine operazioni ad alto rischio, come la liberazione di ostaggi, le irruzioni in ogni ambiente per la cattura di criminali e terroristi, la protezione di alte personalità istituzionali italiane in particolari situazioni di pericolo e la tutela di personalità straniere in visita in Italia» (ci spiega il sito web della Polizia di Stato).  Ed è malizioso chiamarle “effusioni”, lo ammetto. Piuttosto, “prove di iniziazione maschile”. Evidentemente per raggiungere le  performance di un NOCS non basta essere maschi semplici, né basta avere «il coraggio, la prontezza, il sangue freddo e una straordinaria preparazione atletica» (sempre dal sito della Polizia). Bisogna avere  – ed essere –  qualcosa di  più.

Già la parola «anestesia» data a questa pratica di iniziazione maschile dovrebbe dare qualche indizio su come si diventa “veri uomini”. Basta considerare, come ha dichiarato un NOCS, «il dolore e la violenza come concetti relativi» (La Repubblica, 17 settembre 2011, p. 29). Essere oltre il proprio corpo e i sensi: pura volontà. Non sentire il dolore. Per riuscire a raggiungere quelle prestazioni in condizioni estreme, nella logica della pura emergenza, il proprio corpo non deve provare niente, deve diventare una macchina. Né bisogna lasciarsi scuotere dalle grida delle vittime, immagino. Fino a qui, niente di nuovo. Ma la mia immaginazione queer mi incita, solleticata dalle foto pubblicate da Repubblica: nemmeno il piacere bisogna provare. Leggendo qualche dichiarazione, un’idea ce la possiamo fare: importante, dichiara uno degli agenti che ha reso pubblica la vicenda, che la prova «sia affrontata con un contegno maschile e complice» (La Repubblica, 16 settembre, p. 32).

Ah ecco. Un “vero uomo” affronta la nudità di fronte agli altri uomini e riesce ad essere manipolato e poi morso nelle parti intime, senza perdere il proprio «contegno maschile». E se seguo la mia immaginazione, anche gli altri non devono mostrare alcuna eccitazione sessuale o almeno dissimularla, anzi devono dimostrare la propria complicità nel marchiare nella mortificazione di un abuso sessuale l’aspirante adepto. Ma che c’entra questo: la sessualità è nel mio sguardo e il «contegno maschile» di cui si parla qui riguarda il non lamentarsi e il non piangere.

Sarà, ma la legge chiama questo tipo di atti “violenza sessuale”. E i pixel a grana grossa delle foto nel sito Repubblica.it servono per coprire sia la faccia che il sedere, evidentemente considerati elementi di riconoscibilità la prima e di intimità e pudore il secondo. Ormai anche l’edizione cartacea di Repubblica, alle foto viriliste di uomini armati in posizione d’attacco, in passamontagna e tuta tattica, accosta foto di sederi nudi arrossati dalle pacche. Sul sito del quotidiano, si può ammirare anche una foto in cui la censura ha preso poco spazio, essendo la faccia proprio poggiata sul sedere della vittima. Ci sarebbe da sghignazzare, se non ci fosse anche dolore, umiliazione e, pare, anche qualche suicidio.

Che cosa cercava chi ha inventato questo rituale? Non sono un antropologo, né un sociologo, né uno psicoanalista. Io immagino e basta. “Salvare le chiappe” ad esempio mi sembra attinente: se ti mordo a forza una chiappa, la tua chiappa è mia e del gruppo, così come la tua salvezza. «Il morso vuole dire che sei entrato a far parte del gruppo. Chi viene morso è contento, orgoglioso di esserlo. […] è solo un battesimo», spiega un anonimo NOCS (La Repubblica, 17 settembre, p.29) «Le vere violenze, psicologiche e fisiche, le subiscono quelli che non vengono morsi […]. Tra noi c’è una fratellanza, che è simile all’amore assoluto». Proprio assoluto questo amore non è: se ti provoco su una zona erogena – mi suggerisce la mia sensibilità queer – e tu hai una erezione, essa paleserà le tue preferenze (una delle fragilità maschili, quella di non poter celare il proprio desiderio). Un modo semplice di selezionare chi sa rimanere sulla sponda giusta. E poi c’è questa storia delle pacche e del morso, del dolore associato al sedere, dell’allusione alla possibilità “anale” rappresentata come pericolosa. Insomma, i “veri uomini” sono proprio così: capaci di baciarsi tra di loro come i russi, darsi grande pacche e abbracci, tastarsi e quanto altro e comunque rimanere “veri uomini”. Importante che rimanga un’iniziazione segreta: la pubblicazione delle foto immagino sia un grave colpo, una specie di sacrilegio.

Che cosa cercava l’agente NOCS che ha denunciato le violenze? Questa è una domanda importante: in una delle prime lettere con cui l’agente segnalava al comando dei NOCS la situazione di abuso, compare la frase «tutela della mia dignità e della mia professionalità». A dar retta all’agente speciale intervistato da Repubblica il 17 settembre, può darsi che la ferita profonda non sia stata determinata dal morso sul sedere («il morso è una cazzata») ma dal clima di soprusi e violenze messo in atto da un sottogruppo fuori controllo.  Nella mia immaginazione, mi piace però pensare che quell’agente sia stato mosso da un’esigenza, importante e forte, di integrità personale, che abbia ritracciato il confine tra servizio per lo Stato e il dono totale del proprio corpo al Potere, che abbia sentito come ingiusto e non necessario subire l’abuso di un rituale grottesco per poter esercitare la propria professione. Insomma, abbia pensato che per fare bene il NOCS non bisognasse dimostrare a dei sadici svalvolati di essere “veri uomini”. Il che mi sembra un passo avanti per la presa di coscienza che non bisogna essere come dei NOCS per essere uomini veri.

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