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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Donne in battaglia

5 Aprile 2011

Qualche giorno fa il New York Times le ha chiamate guerriere amazzoni, valchirie, lady Hawks, poi si è aggiunto Le Monde. Sono le donne che hanno spinto Barack Obama a muovere contro la Libia, molto più dei consulenti uomini del suo staff. Susan Rice, ambasciatore statunitense all’ONU, è stata vista da tutto il mondo verde vestita alzare la mano più alta di tutti e votare a favore della risoluzione 1973; i giornali la ricordano incinta in Rwanda per tentare di mettere qualche difficile toppa al massacro hutu-tutsi , a cui Bill Clinton mise mano davvero troppo tardi. Samantha Power è consigliere per la sicurezza nazionale, è stata giornalista inviata speciale in Bosnia dal 1993 al 1996. Margaret Woodward è il generale delle forze aree Nato di stanza a Ramstein e già molto apprezzata da George W. Bush. E naturalmente si aggiunge al gruppo Hillary Rodham Clinton, che durante il G8 a Parigi – scrive sempre Le Monde – ha avuto modo di incontrare “discretamente” il rappresentante ufficioso dei ribelli libici Mahmoud Djibril, l’emiro de Qatar e altri emissari dei paesi arabi.
Siamo ben oltre, commenta il quotidiano newyorchese, il vecchio postulato che le donne sono per la mediazione e gli uomini per la violenza: le signore americane sono brave politiche e basta. Così come stanno facendo “ le altre”, le donne che in Nord Africa sono variamente presenti nei governi provvisori o tenacemente sostenitrici dei regimi esistenti, come le molte che si vedono (in verità più sui video in rete che in tv) agitare le bandierine verdi per Gheddafi; oppure quelle che scendono in piazza in Egitto, Siria, Yemen, Bahrein (ricordiamo a tutte e tutti che il 23 aprile in Arabia Saudita si è deciso di procedere ad elezioni amministrative per scongiurare il pericolo di ribellioni e proteste, ma che le donne ancora non potranno votare; “non siamo ancora pronti per la partecipazione delle donne alle elezioni”, ha spiegato il capo della commissione elettorale). Su Le Point (www.lepoint.fr) un lettore sottolinea che non certo tutte le donne americane sono per l’intervento in Libia, perché a loro volta hanno figli a casa oppure impegnati su altri fronti bellici.
Mi piace allo stesso tempo pensare che tutte le donne coinvolte nella rivoluzione epocale nord africana e medio orientale portino un valore aggiunto. Se non si può – una volta in guerra – decidere con il bisturi dove attaccare o non pensare a un futuro possibile attacco di terra, si può al contempo lavorare per il durante e per il dopo, chiedendo anzitutto il rispetto delle risoluzioni dell’ONU relative alla presenza attiva e alla protezione delle donne in situazioni di conflitto (ne faremo la nostra piccolissima personale campagna), e/o prestando attenzione a cose a cui prima non davamo molta importanza. Mi ci fa riflettere Mawada, la ventenne di Bengasi che appare nel notiziario che MTV e Corriere tv mandano in onda ogni giorno, dedicato ai ragazzi nella rivoluzione (davvero bello): studentessa, cuffie appoggiate sul velo e occhialoni scuri, dice che ha scoperto il mondo dei disabili a cui prima non aveva nemmeno pensato, più numerosi a seguito della guerra, e che deciderà di orientare i suoi studi in quella direzione. Noi siamo gente normale, continua a ripetere Mawada alle telecamere: sono stupita, mi sembra una affermazione superflua ma se lei insiste vuol dire allora che l’Europa e il mondo continuano a pensare all’Africa come a qualcosa di staccato dal resto del pianeta che minacciosamente avanza. Non cambierà questa percezione fino a che non ci metteremo materialmente e simbolicamente dall’altra parte.

Monica Luongo

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