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Non vorrei una legge sull'”ultimo respiro”

4 Marzo 2011
di Letizia Paolozzi

“Il padre di Eluana è riuscito a liberare sua figlia da una vita-non vita (e in questo gli va tutta la mia solidarietà), ma a un prezzo molto alto: avremo la legge peggiore che esista al mondo sulle volontà del fine vita. Una vittoria di Pirro, politicamente parlando”.
Roberta Tatafiore, nel momento in cui si stava sottraendo al mondo e alla politica dei guerreggiamenti parlamentari (“partito della vita” contro “partito della morte”), aveva previsto l’esito paradossale di un disegno di legge congegnato in modo che “non si ripeta il caso Eluana Englaro”.
Questo ha spiegato la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella, aprendo la battaglia contro quei giudici “che come vogliono far cadere Berlusconi per via extraparlamentare, sempre per via extraparlamentare vogliono regolare il fine vita”.
Dunque, l’ultimo respiro deve scivolare via dalle grinfie dei magistrati mentre saranno i parlamentari a occuparsene. Potrei anche diffidare delle toghe ma chi mi assicura della sensatezza di Montecitorio?
La fine è diversa per ciascuno di noi. I patimenti di Eluana non somigliano a quelli di nessun’altro. Però avremo una legge valida per tutti. Che deve azzerare le biografie. Nelle Dichiarazioni anticipate di trattamento non ci sarà alcun interesse per le crepe della vecchiaia, le ferite della malattia, il vuoto lasciato da una persona cara. Il mio bagaglio personale, la mia singolarità non esiste più quando è la norma a dire: della tua fine mi occupo io.
Con un testamento biologico che impone ai famigliari, al “fiduciario”, di cedere il passo al medico curante, trasformato in un autocrate che avrà l’ultima parola senza tenere conto della mia volontà se e quando mi succedesse di venire inghiottita dal silenzio della vita-non vita.
E cosa accadrà della persona sola al mondo che si dibatte nella solitudine del morente?
“Mi faranno vivere per forza. Fanno sempre così negli ospedali, hanno delle leggi apposta. Io non voglio vivere più del necessario e ormai non è più necessario” prevedeva Madame Rosa, la vecchia prostituta ebrea di “La vita davanti a sé” (Romain Gary).
Dall’altra parte, nello schieramento laico, in molti hanno difeso con accenti a tratti prometeici, “l’autodeterminazione”, quasi fosse in grado di squarciare il buio del sondino. Hanno invocato “la libertà”; la Costituzione; il diritto di rifiutare qualsiasi cura.
Non so se la mia fede nella laicità è troppo vacillante ma, date le premesse, escludo di ricorrere al testamento biologico.
Se mi interrogo su quale possa essere la “buona fine”per me, una sola strada conosco (ne abbiamo ragionato in un gruppo di donne producendo il testo “Il coraggio di finire”): fidarmi e affidarmi alle relazioni.
Ci sono persone che hanno costruito con me legami tenaci. Un parente, un’amica, un medico, un infermiere. Creature sapienti in grado di provare dolore e accogliere il terribile ricatto della compassione.
D’altronde, la cesura della fine comporta il carico di questi sentimenti.
Oggi non abbiamo modelli di rappresentazione della morte, ma c’è una pratica che il femminismo ha consegnato alle donne e agli uomini: il congedo relazionale. Al contrario, il biotestamento non mi sembra che diventerà un modello per nessuno mentre dividerà per l’ennesima volta il Parlamento italiano. Anche sull’ultimo respiro.

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