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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Guardandoci da lontano

8 Febbraio 2011
di Monica Luongo

Kampala, Uganda, circa dieci giorni fa. Sono nella palestra di un grande albergo, in missione internazionale con altri donne e uomini dell’Unione Europea. Sulla cyclette accanto alla mia c’è una ragazza musulmana, debitamente coperta da capo a piedi che suda il doppio di me; alle sue spalle la madre (o la sorella) sfoglia un giornale aspettando che la giovane finisca la sua ora di fitness. Mentre arranchiamo stando ferme guardiamo insieme la CNN: il servizio è dedicato all’attentato nell’aeroporto di Mosca (a proposito: qualche giornalista italiano se ne sta ancora occupando?). Siamo entrambe colpite e ne parliamo insieme e a lungo: non capiamo a chi giovi, ancora non è chiaro se sono i ceceni, se è solo un manovra contro Medvedev a Davos. Sono contenta di averla incontrata e mi chiedo più volte a sera perché in Italia non incontro musulmane con cui scambiare qualche battuta in palestra. Il giorno dopo – o due non ricordo, sono sempre chiusa nel meeting – scoppia la rivolta in Egitto, quella in Tunisia si è spenta da poco, anzi no, si sono spente le telecamere per accendersi sulle piramidi. Mi viene un attacco di ansia perché voglio saperne di più: mi affido a Twitter, perdo un quarto d’ora ma entro nella rubrica di due giornalisti e uno studente al Cairo e così i loro messaggi mi arrivano sul telefonino mentre lavoro. Il giorno dopo l’aria è cambiata a colazione: il mio collega italiano mi racconta della telefonata di Berlusconi a Lerner e di quella di Masi a Santoro, roba che spazza via lo scenario internazionale. Nel giro di due giorni Berlusconi riprende lo spazio della prima notizia, e così la casa di Montecarlo ma anche le bestemmie del Grande Fratello e l’astinenza sessuale di Belen Rodriguez e del suo fidanzato che si sono beccati una infezione. Sic sul Corriere della Sera, su cui alcuni giornalisti si indignano per certi linguaggi di alcuni editorialisti e poi non fanno una piega per le notizie pubblicate in home page. Scusate: non voglio essere snob ma quando ho accesso a Internet guardo prima BBC e Al Jazeera e poi i siti dei nostri quotidiani.
Lunga premessa – me ne scuso – ma non so altrimenti come comunicare lo sgomento che prende non solo me ma la maggioranza di chi si sposta all’estero per lavoro (non dovete arrivare in Uganda, potete fermarvi a Mentone) rispetto alla paralisi che stiamo vivendo in Italia. Il senso di cittadinanza solitaria si acuisce dopo aver dedicato oggi un po’ di tempo a leggere il dibattito su questo sito e su altri luoghi telematici che alcune donne e uomini stanno animando relativamente al caso Ruby, al machismo del premier, alle convocazione nazionali (Libreria di Milano), alla lettera di Concita de Gregorio, direttora dell’Unità. Mi sforzo ma non capisco e mi sembra che il momento ovviamente delicato stia portando tutte e tutti noi a moltiplicare i piani della riflessione e mettere insieme nel nostro pensare più elementi. Più di tutti mi ha colpito il documento della Collettiva di Sassari relativamente ai modi e ai tempi delle donne, mi è sembrato di tornare indietro nel tempo: che noi donne siamo vivaci nel dibattito, che abbiamo i nostri tempi e le nostre differenze è cosa che dobbiamo ancora dirci? E davvero la questione importante è il business delle giovani escort? E anche se fosse cosa faremmo? E ancora pensiamo che usare lo strumento televisivo significhi cadere nelle mani degli ultimi provocatori imperialisti (e maschi), come si diceva una volta?
Lo so bene che non siamo in un paese dove c’è un capo autoritario, ma un signore eletto democraticamente. Non ne possiamo più? Per scendere in piazza a Tunisi e al Cairo sono bastati i cellulari, e non ci sono state convocazioni, documenti e manifestazioni concertate con 15 giorni di anticipo. Non dobbiamo per nostra fortuna mettere i fiori sui carri armati dell’esercito, né prendere le botte, ma usiamo la rete come se fossero le regie poste, ci convochiamo aspettando i giorni che verranno. Insomma ho la percezione che siamo fuori fuoco mentre il mondo si sta muovendo a una incredibile velocità. Cosa pensiamo di cambiare continuando a indignarci? Sono le donne della politica che vanno chiamate in piazza semmai, e subito, è con loro che bisogna alzare la voce e chiedere, pretendere, forse negoziare. Anche loro sono vittime del sistema del potere maschile? Mi spiace ma non mi commuove.
Io come le amiche e gli amici di Donnealtri, sono per la mobilitazione allargata anche agli uomini: se si vuole proprio mostrare indignazione, si esca fuori dai circoli buoni, si dia il via agli scioperi dei bancomat, alla disobbedienza civile, ai sit in con le badanti, finanche all’occupazione dei mercati. E poi trattative a oltranza.
E’ chiaro che sono plateale, ma davvero mi chiedo fino a quando possiamo rimanere avvitate nei dibattiti delle scuole di pensiero. Io, confesso, sto sempre peggio in Italia e nei pochi mesi che vi trascorro sento depressione frustrazione e rabbia. Non sono a mio agio, e maledizione, nemmeno più con le amiche con cui una volta vivevo la politica. Avvitate su noi stesse, spesso avvilite, perdiamo forza nell’agire e forse non siamo sempre sincere nell’esame degli errori delle nostre politiche, ancora troppo preoccupate di marcare le differenze fino all’esame del capello, non vediamo più che fuori il mondo corre e non ci aspetta.

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