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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Una malattia al governo: sessantottofobia

1 Gennaio 2011
di Letizia Paolozzi

Il ministro del Tesoro una qualche resipiscenza deve averla provata nella sua ammissione che “non si può abrogare per legge il ‘68”. Tuttavia, a leggere le dichiarazioni che escono dalla compagine governativa (cui va aggiunto un cospicuo numero di professori-editorialisti), dimenticare il ’68 è diventata una costante.
Aveva cominciato Sarkozy. “Un’eredità da liquidare” che ha distrutto “i valori e la gerarchia” imponendo “il relativismo intellettuale e morale”. Quindi lo stesso Tremonti: il ’68 significa morte dell’autorità nella vita pubblica per cui gli ultimi quarant’anni andrebbero azzerati. Si aggiunga l’antipatia intensa del sottosegretario al Welfare, Sacconi,: “La lunga ricreazione nel sistema educativo iniziata nel ’68 è finita” come se la questione si risolvesse grazie al grembiulino e al maestro unico.
Quanto a Mariastella Gelmini: la riforma dell’università è “un provvedimento storico che archivia definitivamente il ‘68”. Al momento del voto, grida belluine hanno interrotto l’osservazione della capogruppo Pd al Senato, Anna Finocchiaro che faceva osservare come una giovane donna oggi può diventare ministra grazie anche al ’68. Prima, una cosa del genere sarebbe stata impensabile.
Eppure questa data – nel bene e nel male – ha cambiato molte cose rimbalzando da Berkeley a Praga, Tokyo, Città del Messico, Berlino, Parigi. Il ’68 non l’ha vissuto solo Torino e Palazzo Campana. In fondo, non si deve al ’68 la “divina sorpresa” del crollo del “socialismo reale”?
Fu uno spartiacque. In Italia “prima” c’era l’articolo 587 del codice Rocco a “tutela” del delitto d’onore; “dopo” arriverà il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, le altre poche vere riforme che questo paese ha conosciuto. Uno può sostenere che quel clima non giovò alla morale, al civismo, tuttavia cambiò il rapporto tra uomini e donne e quello tra genitori e figli.
Entrò in crisi l’autoritarismo patriarcale. Vero che oggi manca la capacità di porre dei limiti, che i padri non sanno più quale ruolo assumere, che le norme non vengono rispettate, che nella nostra società si corre dietro al “godimento quotidiano” descritto dal rapporto Censis, ma la storia non sta ferma. E comunque lo si giudichi, il ’68 è storia.
Anche se scarsamente elaborato a destra, e a sinistra. Anche se la politica si immobilizzò, rinserrata nei luoghi istituzionali, sempre più incapace di trovare strumenti efficaci di mediazione dei conflitti. Ne fa fede l’esempio, recentissimo, della polizia che prende a manganellate i duecento pastori sardi rei di voler manifestare (a Roma) senza “aver dato il preavviso”.
Se il ’68 è storia, con buona pace del governo Berlusconi, la storia non si sradica. Nemmeno con la damnatio memoriae dei sistemi autoritari, con le “pagine bianche” e i “buchi neri” in cui eccelleva lo stalinismo.
Per parte nostra, abbiamo la sensazione (come scrive la storica Anna Bravo) che allora successe qualcosa di importante. Buon 2011, dunque, a chi ha vissuto quei “formidabili anni”. A chi li ha contrastati; a chi li guarda semplicemente con curiosità.

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