In linea di principio pare corretta la sentenza del Tar che ha bocciato la delibera della Regione Lombardia sulle interruzioni di gravidanza perchè “una materia tanto sensibile non può essere disciplinata differentemente sul territorio nazionale lasciando che siano le Regioni a individuare, ciascuna per il proprio territorio, le condizioni per l’accesso alle tecniche abortive” (Corriere della sera, 2 gennaio).
In particolare il limite delle 22 settimane per l’aborto terapeutico voluto dalla giunta Formigoni non è previsto dalla legge 194 che affida ai medici la valutazione sulla possibilità di vita autonoma del feto. Ma non si capisce chi si entusiasma per la sentenza: si vincono con i tribunali le battaglie culturali?
In realtà molti ospedali, non solo in Lombardia, già si autoregolano applicando il parametro delle 22 settimane. E non tanto per crociata anti abortista, quanto per valutazioni di carattere scientifico.
Come spiega Alessandra Kustermann, che dirige il Pronto soccorso ostetrico della Mangiagalli di Milano e che non è certo un’obiettrice: “Nel 1978, quando fu approvata la legge sull’aborto raramente un feto poteva sopravvivere alla 27esima settimana di gravidanza. Oggi siamo arrivati alla 22esima grazie al supporto dei farmaci e delle apparecchiature” (Il Giornale, 3 gennaio).
Ma sappiamo che la guerra civile sui “valori” tornerà a divampare, alimentata dalla caccia ai voti cattolici. Subito dopo Formigoni che accusa il Tar di appoggiare la “deriva abortista”, è Rocco Buttiglione a rilanciare: bisogna cambiare la legge e porre il limite a venti settimane (L’Unità, 3 gennaio).
Così un dibattito alto riguardo a una scelta tanto drammatica come l’aborto di un figlio voluto, diventa affare da ragionieri. Non ci si interroga invece sul desiderio di maternità.
Proprio la clinica Mangiagalli di Milano ha reso pubblici dati sorprendenti: negli ultimi tre anni i casi di donne che partoriscono senza declinare il nome del padre si sono triplicati. Donne per lo più italiane e con un buon livello di istruzione, che non vogliono rinunciare a essere madri anche se non c’è un uomo accanto a loro. Una madre su cinque.
“Questo fenomeno è lo specchio di una società che cambia e dove i rapporti tra uomini e donne sono sempre più difficili” ha commentato la sociologa Francesca Zajczyk. “Mi piace pensare che le madri single siano forti e consapevoli –ha detto Assunta Sarlo, del gruppo femminista “Usciamo dal silenzio”- ma dietro queste scelte non si escludono storie di donne mollate in corsa da uomini spaventati dalle responsabilità” (Repubblica, 22 dicembre).