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Prima della classe vorrei una “coscienza”

5 Dicembre 2010
di monica luongo

Arrivo tardi al dibattito sulla lotta di classe e mi schiero subito con Bonacchi e la sua analisi riguardo al mondo delle donne e alla parola classe. Ha ragione a dire che la parola classe non può più essere usata a partire dal fatto che le donne stesse iniziarono a declinarne diversamente il/i significati. Però non mi accontento: non ci sarà la parola classe, forse non c’è ancora la parola nuova, ma a me sembra più che altro sia scomparsa la parola che precedeva spesso il termine classe e cioè “coscienza di”. Quando ci si riferiva alla consapevolezza nella lotta di classe se ne assumeva il senso politico e sociale della collettività. E in questo non vedo più le donne come movimento, o come movimenti: ci vedo frammentate disilluse, incapaci a ogni età di qualsiasi iniziativa.
Vivo molti mesi dell’anno lontano dall’Italia, non mi sento una orfana né ne ho particolare nostalgia, perché l’ Africa, il continente che mi ospita, vive nei suoi molteplici disagi, innumerevoli modalità partecipative: dei singoli, dei gruppi, delle donne e degli uomini. Mi fermo solo alle donne: i gruppi di donne sono infiniti: le incontro alla domenica a casa delle amiche quando partecipano alle raccolte fondi informali, amicali e familiari, le ritrovo ai tavoli di governo dove dicono la loro sui piani quinquennali di sviluppo, le vedo scrivere e fare ricerche e a volte anche dannarsi – ma insieme – per i loro insuccessi (per esempio la scarsa incisività delle misure a favore delle donne anche in paesi che hanno quote notevoli di donne in parlamento), le ho viste a centinaia negli interessanti forum dell’African Union Women Decade di Nairobi battersi come leonesse per affermare il diritto a gestire gli aiuti umanitari a loro destinati, le nuove costituzioni, il futuro dei loro figli e la sostenibilità ambientale. Insomma, anche se non proprio dall’interno, io assisto ai movimenti di gruppi di donne. E’ quello stare insieme che produce coscienza, che muove decisioni, che fa parte dell’agire politico.
Mi manca. Mi manca tutto questo in Italia, dove vorrei che ci fosse uno spazio ampio è più attivo delle donne, non l’azione di pochi e troppo ristretti gruppi. Mi mancano addirittura le assemblee a cui partecipavo nei mesi di agonia che precedettero la chiusura della prima Unità, perché quello è stato l’ultimo momento di partecipazione collettiva in un luogo di lavoro che ho potuto vivere, anche se altamente drammatico. Da dove può venire un nuovo oggi, cari Gabriella e Alberto (e anche Bia)? Da quali luoghi, da quali generazioni? Oggi mi definisco una precaria d’alto bordo, ovvero una libera professionista ben remunerata quando il lavoro lo trova, continuamente a caccia di una occupazione da un mese all’altro (altro che co.co.pro), in un mercato spietato dove certo le donne non sono alleate (e perché dovrebbero?). Non ho un luogo dove misurarmi riguardo a ciò, nemmeno uno dove riflettere seriamente su quello che una volta era la sponda – il termine più ampio che mi viene in mente – la mia sponda di sinistra. Una giovane collega di mio marito, precaria dopo la maternità non ha avuto il rinnovo del contratto: è stato lui sgomento a chiedermi di parlarle perché “io so come si fa” in questi frangenti. Certo, una volta lo sapevo o lo vedevo fare: tutti i colleghi il giorno dopo non andavano al lavoro e oggi avrei sfinito di telefonate una consigliera di parità, sarei anche arrivata ad azioni di disobbedienza civile, ma come? Da sola?. In questo caso la questione è stata presto risolta, perché la collega licenziata con un laconico sms ha preferito comunicare a chi voleva aiutarla al rispetto dei suoi diritti che lei preferiva “lasciar perdere e non lottare per un posto di lavoro in un luogo così schifoso”. Ecco fatto, e quelle che verranno dopo di lei?
Se oggi si parla solo dei metalmeccanici della Fiat è perché quello è ancora un gruppo. Noi, soli e senza meta, ci limitiamo animati da diversi sentimenti a guardare una enorme scatola vuota.

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