Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

Una rivoluzione nel mondo del lavoro

20 Ottobre 2010
Pubblicato anche sul numero 3 di "alfabeta2"
di Letizia Paolozzi

Negli Stati Uniti se ne sono accorti da tempo. Vi dedicano ricerche, libri, inchieste di giornali. Un dibattito pubblico che afferra segnali, li accosta, li studia e poi l’annuncio: sì, il lavoro oggi è abitato dalle donne. Sì, un sesso si sta sostituendo all’altro. Sì, è una rivoluzione nel mondo del lavoro. Proprio in questo periodo di acuta crisi economico-sociale, sono le donne la risorsa del futuro.
Succede – inatteso fenomeno – che le imprese con un management al femminile abbiano utili maggiori. Reggono meglio l’impatto della recessione. Naturalmente, nella finanza le leve del comando sono ancora in mani maschili. Però non è questo che conta. Conta che le donne non mollino. Vogliono lavorare. Alle loro condizioni. Pur continuando a correre sessanta ore alla settimana tra ufficio, casa, famiglia.
C’è un mondo abitato da un sesso più istruito, più determinato, meno frenetico nella competizione. Flessibile e multitasking. Doris Lessing nel Diario di Jane Sommers scriveva che sono – siamo –capaci di «tenere insieme le cose». Una grande dote, pur costrette a trasformarci in funambole. Tutte laureate in danza acrobatica cucendo, mescolando, intrecciando. Non la vita da una parte e il lavoro dall’altra. Una geografia spaziale e sociale che cerca di allontanare quel modello crudele per cui o scegli la casa o lo stipendio, il figlio o l’autonomia.
Hanno molte qualità, le donne. Sono austere, parsimoniose. Capaci di far quadrare bilanci familiari anche modesti. Attente a non buttare denaro al vento. In Bangladesh, il banchiere Muhammad Yunus le ha aiutate a trasformarsi in microimprenditrici attraverso la rete del microcredito. Perché non si ubriacano. Come i maschi. Perché meno corrotte. Dei maschi. Quando l’Islanda precipita in una voragine finanziaria drammatica, per frenare il turbo capitalismo delle stock options chiede aiuto a due manager femmine.
Spiegano: le donne sono meno portate a rischiare. O forse sono più assennate? L’audacia di manager e trader pare dipendere dal testosterone. Sarebbero gli ormoni a spingere i maschi a «giocare» col denaro. Solo che la crisi li ha fragilizzati, sfarinandone il gusto del rischio, avvilendo il senso del comando. Scommettevano sull’alta finanza, si rotolavano nella bolla immobiliare, erano convinti che l’automobile sarebbe andata avanti a inghiottire benzina per i prossimi mille anni. Tutto sbagliato.
D’altronde, questa delle donne è una scommessa realistica. Non una rinuncia. Lavoriamo meglio, non di più. In America (e pure in un pezzo d’Europa ma non in Italia) se ne sono accorti. Per tornare al punto, par di capire che nelle fasi di difficoltà i mercati finanziari ricompensino implicitamente le strategie (più prudenti) del sesso femminile, mentre sanzionano quelle più audaci (del sesso maschile).
Vi prego, non ditemi che nelle riunioni della Banca mondiale, del G8 e persino del G20, del Fmi, le foto di gruppo continuano a ritrarre maschi in doppio petto grigio scuro. Lo so che di donne ce ne sono ancora poche nei luoghi apicali del potere. Eppure «stanno vincendo nella più importante delle guerre di genere, quella della qualificazione formativa con i titoli di studio più alti» (annunciava due anni fa l’«Economist»). Conclusione: se Lehman Brothers si fosse chiamato Lehman Sisters, magari il gruppo bancario avrebbe avuto meno problemi.
Oggi navigano in acque difficili imprese di costruzioni e metalmeccaniche mentre il numero di aziende create dalle donne (sottolineava uno studio della Columbia Business School) negli ultimi dieci anni è cresciuto il doppio della media nazionale. Per l’economia postindustriale, il fisico e la forza – l’uomo di marmo, le mani callose – non hanno più il valore di una volta? Ma ovviamente il corpo è sempre al lavoro. Quello del singolo davanti al computer, quello dei trentatré minatori cileni rimasti intrappolati nelle miniere di San Esteban a settecento metri sotto terra.
Certo il lavoro nella società della conoscenza, dei servizi, del web, della new economy da esperienza collettiva e di socializzazione nel passato, adesso è una prova, uno sforzo, una operazione individuale. Che però il sesso femminile cerca di allargare in una trama di rapporti.
«Il divenire donna del lavoro», scriveva Gilles Deleuze. Il lavoro per le donne produce anche relazioni. D’altronde, nel postfordismo lavorare è comunicare. C’è un contenuto di lavoro relazionale molto elevato nella società della conoscenza. «La donna non sarà più l’avvenire dell’uomo, piuttosto lui diventerà il passato della donna», abbiamo letto su «Le Monde» dello scorso luglio. Si riferiva alla situazione economico-sociale americana. E all’inizio del 2010 la copertina di un settimanale americano annunciava: «Negli Usa le lavoratrici stanno diventando di più dei lavoratori…».
Da un mondo di uomini stiamo passando a un mondo di donne (è la previsione del sociologo Alain Touraine). Viene in primo piano l’intelligenza sociale, il saper ascoltare, appunto, quel «di più relazionale» come lo chiamano le femministe della Libreria delle donne di Milano, nel Manifesto Immagina che il lavoro…
Una profonda modificazione. Che fa il paio con la trasformazione della maternità da destino biologico in progetto di vita inscritto nella storia personale. Mala modificazione riguarda pure gli uomini. L’estate scorsa ero su una spiaggia del Mezzogiorno. Non avevo mai visto tanti padri fare il bagno con i bambini, spingere la carrozzina, giocare con i piccoli. Forse gli uomini sono meno ossessionati dalla carriera e stanno scoprendo che padre è bello?
Vero è che di fronte all’ottimismo del «sogno» tinto di rosa molto made in Usa, in casa nostra la musica cambia. Se le ricerche (recentemente quella del Cerved sulle manager) mostrano che le imprese a guida femminile tengono, che incrementano più velocemente i ricavi, generano più profitti, sono meno rischiose, questo modesto miracolo non fa primavera.
Così, in Italia prevale il pessimismo. C’è poca voglia di intercettare il fenomeno. Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, concludendo la festa di quel partito a Torino ha detto: «Il risveglio italiano è fatto di lavoro». Bene. Ma ha ragionato sulla presenza femminile che può modificare l’attuale organizzazione del lavoro?
Sicuramente, le difficoltà ci sono. Discriminazioni, stereotipi, stipendi inferiori, precariato, inadeguatezza dei servizi sociali, carriere intermittenti, disoccupazione alta al Sud, redditi femminili più bassi. È pazzesco il divario tra quanto prende una colf (una badante, una babysitter dell’esercito gorziano del «terziario umile») e un gestore dei nostri soldi in banca.
Dopodiché le donne sono quasi assenti dalle istituzioni, dai luoghi della rappresentanza, dai gradi alti della scala gerarchica. Grido di dolore: l’Italia è «il fanalino di coda» non solo dell’Europa. Di fronte a questo panorama miserrimo la via d’uscita più praticata consiste nel ricorrere alle quote, alle norme antidiscriminatorie. In Parlamento hanno preparato un testo di legge bipartisan che impone di riservare al sesso femminile un terzo dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa.
Eppure le donne potrebbero modificare in meglio l’economia del paese con il loro «valore aggiunto» (Maurizio Ferrera, Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia, Mondadori 2008). Invece succede che se il Giappone è il penultimo nella classifica mondiale della natalità, da noi il 25% delle donne dopo la nascita del primo figlio abbandona il lavoro. Sempre lo stesso ricatto. Sempre le stesse cifre impressionanti. L’80 % del lavoro domestico, la manutenzione della casa e degli affetti (per piacere e per dovere) è governata damani e cuori femminili.
Il lavoro e le donne: una marcia segnata da contraddizioni, slanci, frenate. Ma anche trasformazioni profonde. Per questo non convince chi commenta amaramente «la condizione femminile» guardando solo al bicchiere mezzo vuoto. Marx ed Engels mica si preoccuparono nello scrivere quel loro fulminante libretto nel 1848 che gli operai fossero ancora molto pochi, sfruttati, e che difficilmente sarebbero riusciti a liberarsi dalle loro catene. Supponevano che avessero comunque un mondo da conquistare.

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