«Non sappia la sinistra cosa fa la destra». Da bambina il parroco della chiesa che frequentavo con assiduità predicava con passione e sicurezza, fedele a uno stile oratorio che negli anni si ripeteva identico. Per questo, credo, mi è rimasto così impresso. Capite, declamava anno dopo anno dall’altare secondo i ritmi dell’anno liturgico, la sinistra, e mostrava la mano, capite, insisteva, non deve sapere cosa fa la destra, e mostrava quell’altra, e quel “capite” catturava la mia attenzione incondizionata, capite, ripeteva, non deve sapere…E infine le alzava insieme, le mani, le mostrava dall’altare, mi sembravano un punto interrogativo che mi interpellava direttamente. Non ricordo altre parole. La forza di quel gesto, il mistero di quello spazio tra le due mani così prossime che non si riesce a pensare come l’una possa ignorare l’altra, è la prima immagine che mi è venuta in mente quando ho cominciato a riflettere sulla gratuità, sulla scia del programma di quest’anno del festival della Spiritualità di Torino, alla ricerca della via per indagare sul paradosso evidente eppure difficile da sciogliere che si racchiude nella fin troppo nota “gratuità femminile”. Ho cercato di cacciarle via, queste mani invadenti, senza successo. Così mi sono arresa, ho accettato questo spazio che mi ha offerto la memoria, lo spazio che invita a percorrere la via di una generosità che sceglie di nascondersi allo sguardo degli uomini, del proprio mondo, della società; una generosità che si muove per uno sguardo altro, collocato altrove, non nel piano dell’esperienza immediata di un tornaconto, in una dimensione che non ha a che fare con nessuna economia, neppure, mi sembra, quella del dono.
Mi sembra una traccia preziosa per sfuggire a quel sapore scontato che a volte rintraccio in quelle considerazioni che dal lavoro di cura, compito affidato di solito alle donne, procedono per una linea fin troppo diretta all’attribuire alle stesse donne saperi e poteri speciali, pratiche di vita quasi spontaneamente proprie. Come se quel ruolo sociale femminile racchiuso nell’essere madre, moglie, figlia nella famiglia della tradizione potesse essere rovesciato solo cambiandone il segno. Come se la gratuità obbligatoria di colei che tutto fa senza che nulla le sia dato perché non c’è altro destino possibile, possa diventare gratuità scelta in libertà senza un autentico lavoro di trasformazione. A questo punto so che dovrei fare nomi, scegliere citazioni ed esempi. In verità non intendo polemizzare: un’altra economia è possibile, e il dono, lo scambio, il baratto ne sono una via maestra, i saperi femminili hanno competenze mai abbastanza esplorate. Quello che mi preme è l’attenzione. Per esempio a non confondere dono e condivisione. Se il dono crea un’economia, una circolazione, la condivisione apre uno spazio e non aspetta un ritorno.
Vuole essere un esercizio di attenzione condivisa lo scavo delle parole della tradizione cristiana che mi si sono offerte.
Quando ascoltavo il mio parroco sapevo che parlava del Vangelo, della parola di Gesù. Non sapevo che quelle mani, che tanto mi incuriosivano e mi facevano pensare con la serietà delle bambina che ancora non conosce i circuiti mentali dell’abitudine che cataloga le immagini senza più riconoscerle, si trovano nel vangelo di Matteo. Soprattutto non sapevo che questi versetti fanno parte del Discorso della Montagna:
“Quando fai un atto di carità, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli uomini falsi nelle sinagoghe e nelle strade per avere elogio tra la gente: davvero vi dico, questo è tutto il loro premio. Ma quando dai per carità, non sappia la tua sinistra che cosa fa la destra. La tua carità rimanga segreta; e il Padre tuo che vede nel segreto, ti renderà merito» (Mt. 6, 2-4)
Il cardinale Martini, nelle Meditazioni sul Discorso della Montagna, volume che raccoglie i suoi interventi a un corso di esercizi spirituali per sacerdoti, riassume così il senso di questi versetti, che sono, spiega, uno dei “non” che seguono alle Beatitudini: «Non mettetevi in mostra, non guastate le opere buone con la vanagloria». Un imperativo negativo, un obbligo morale, la nuova legge per chi accoglie la logica paradossale delle Beatitudini. «In che modo l’ottativo della felicità viene onorato da questo poema delle beatitudini?» si chiede Paul Ricoeur, quali sono le istruzioni di questo testo? «La prima istruzione è la composizione della lista», nel vangelo di Matteo le beatitudini sono otto. «La seconda istruzione importante del poema» continua Ricoeur «concerne la proclamazione, che ha in sé la forza di capovolgere la confessione di infelicità in promessa di felicità».
«Beati i poveri nello spirito, perché di loro è il regno dei cieli» (Mt, 5, 3), è la prima della beatitudini.
Nel tenere fede al piccolo discorso ermeneutico che mi ha portato fin qui, mi pare che siano i “poveri nello spirito”, coloro che accolgono nell’esperienza della loro vita la promessa di felicità che va oltre l’orizzonte dell’immediata soddisfazione, a poter praticare la gratuità della generosità che sceglie di non sapere di sé stessa. Consapevole delle infinite esegesi e confronti con il “Beati i poveri” del Vangelo di Luca a cui segue l’altrettanto esplicito «Guai a voi ricchi”, nei poveri nello spirito trovo il cuore del paradosso intravisto nelle mani ostentate dal parroco sull’altare. «I poveri nello spirito, nel cuore, sono quelli che l’Antico Testamento definisce ‘anawim, ossia «curvati», quegli umili che sono tali perchè sono stati umiliati» commenta Enzo Bianchi. «Sono quelli che vengono chiamati “poveri del Signore” perché custodiscono nel cuore il senso della loro umiltà e sperano, confidano in Dio, attendendo da lui molto di più di ciò di cui hanno materialmente bisogno nella loro indigenza».
È una logica speciale, estremamente concreta e che pure fuoriesce dall’orizzonte del calcolo, dell’interesse immediato, delle opportunità sociali. Come accade nella famosa parabola del buon samaritano, lo straniero che soccorre un uomo aggredito dai briganti dopo che un sacerdote e un levita erano passati oltre senza fermarsi. «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo dell’uomo che era incappato nei banditi?» (Lc, 10,36) chiede Gesù al maestro di legge che gli aveva chiesto «Chi è il mio prossimo?». La gratuità del samaritano riposa nel suo agire per compassione, al di fuori di ogni regola di appartenenza, di reciprocità, perfino di solidarietà sociale. Il samaritano è l’altro, appartiene a un altro popolo, nessuno si aspetta nulla da lui. La sua non è carità benevola, neppure un dono che crea circolazione di azioni immateriali eppure fondamentali, all’interno della comunità. Lui non è della comunità, semplicemente. La compassione che lo muove risponde solo a sé stessa, alla propria consapevolezza, a quello spazio che la segretezza tra una mano e l’altra lascia aperto alla condivisione senza fini. Non ricordavo, mentre ne andavo alla ricerca, che Gesù, sempre nel Vangelo di Luca, incontra Marta e Maria subito dopo il racconto della parabola del buon samaritano.
Si ricorderà la storia. Gesù è ospite di una casa dove ci sono due sorelle. Una, Marta, è indaffarata a fare tutto l’occorrente per provvedere ai bisogni dell’ospite. L’altra, Maria, si siede e ascolta le parole di Gesù, tanto che Marta chiede proprio a lui di rimproverare la sorella che non l’aiuta nel suo “lavoro di cura”: «Marta, Marta mia! tu ti affanni e ti inquieti troppo per troppe cose. Di una cosa sola soltanto c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore e non le verrà tolta». (Lc 10, 41).
Su questi versetti non ho memoria di una speciale retorica oratoria del vecchio parroco. Ricordo invece il brivido che mi procuravano, il sottile piacere di farmi confermare, prima da mia madre, poi al catechismo, che avevo proprio capito bene, che Gesù dice che ci sono cose più importanti dello sfaccendare, che la parte migliore è ascoltarlo.
Sarebbe eccessivo radicare in queste parole una (mia) ribellione ai ruoli femminili, anche se naturalmente vi si trova una pressante sollecitazione alla capacità di discernimento e di giudizio, espressioni forti di libertà e autonomia. Qui mi preme mettere in evidenza la sottile e netta via
della gratuità, l’indicazione ferma di dare preminenza nella vita a ciò che in apparenza non serve, non obbedisce alla logica strumentale dell’utile. Che questo avvenga proprio nei confronti di chi riteneva di agire bene, in obbedienza agli obblighi e, perché no, ai piaceri del servizio e della cura, mi sembra un’indicazione essenziale. Non ci si può illudere che la casalinghitudine sia di per sé una via alla santità, o da un più terreno punto di vista, alla trasformazione del mondo.
Ma vorrei tenere la traccia di una riflessione che si è inaugurata con le mani che scelgono di lasciare tra loro uno spazio aperto e segreto. Mi sembra chiaro ora che si tratta dello spazio della gratuità, che nell’esperienza femminile assume caratteristiche speciali: lo definirei il paradosso della gratuità femminile. Come rivelano le parole di Marta, e come ha preso coscienza nel suo farsi la contemporanea soggettività femminile, una premura che diventa un dovere, un’identità, è una vera e propria trappola: l’essenziale è altrove. Il gratuito, anche femminile, anche nel dono di sé, non solo non è ostentato, ma non è dato, per esserci attraversa prove. Va detto che proprio la prossimità femminile alla vita, all’esperienza concreta del vivere può aiutare la trasformazione. Eppure proprio per questo è facile confondersi, slittare nel linguaggio, senza lavoro autentico: dagli obblighi e doveri di un’esistenza sociale femminile orientata secondo la tradizione, alla consapevolezza di sé di una scelta liberamente assunta. È questo il punto di attenzione, che viene proprio dal cuore dell’esperienza femminile. L’attenzione a uno slittamento che svuota di senso un’esperienza, l’esperienza femminile della cura degli altri, quando pensa di farne un punto di potere simbolico e reale senza la necessaria attenzione al paradosso di una gratuità da conquistare proprio nel cuore di un ruolo dato che nella gratuità trova la sua motivazione. Un’occasione unica, eppure facile da lasciar scivolare via.
Lo spazio dove si fa esperienza del vivere la gratuità è altrove, non nei ruoli e neppure nella mitizzazione ostentativa della propria “trappola sociale”. Il segreto della gratuità incarnata e autentica è tra il corpo – le mani – e la mente, che fa attenzione che l’una non sappia dell’altra. La chiave è nel segreto, nel silenzio che accoglie e non giudica né enfatizza.
Per chiudere, sia pure provvisoriamente, riporto un brano di Christina Feldman, insegnante di meditazione buddhista di consapevolezza (vipassana) sia nel Devon, Inghilterra, presso Gaia House di cui è co-fondatrice, sia nel Massachusetts e in California, tratto dal suo libro “Compassione. Ascoltare le grida del mondo”, uno di quei testi in cui si fa esperienza di una parola che trasforma:
«Una giovane donna ha parlato della crisi che affrontò dopo dieci anni in cui aveva allevato da sola il proprio figlio gravemente autistico. Dopo lo shock iniziale della diagnosi ella dedicò il proprio tempo e la propria attenzione al figlio in modo da alleviare il suo isolamento e la sua sofferenza. Una mattina, disse, si svegliò e ebbe l’impressione di non avere nient’altro da dare. Iniziò ad accostarsi al figlio con riluttanza, ad andare a dormire la notte piena di risentimento, a rimpiangere le semplici gioie che constatava nella vita delle altri madri. Condannò sé stessa per non avere saputo donare totalmente il proprio cuore al proprio figlio. Man mano che il biasimo di sé si inaspriva, si ritrovò ad annegare in un oceano di desolazione. Ebbe la sensazione di non avere scampo; il suo cuore si era tramutato in pietra. Alla fine riuscì ad abbracciare semplicemente la sofferenza del momento presente. Sentì di racchiudere tutto il risentimento, il rancore e la perdita in un profondo silenzio. Il giudizio, il biasimo e la rabbia erano altrettanti fili del medesimo tessuto di dolore, e tutti meritavano compassione. Iniziò a intuire che, come ha suggerito Thomas Merton, il mistico cristiano “l’autentica preghiera comincia nei momenti in cui tutte le porte sono chiuse e il nostro cuore si è tramutato in pietra».
Anche nell’esperienza femminile la gratuità è, come per tutti, prima di tutto un’esperienza interiore, questione di mente e cuore.