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Il mondo di Adele, cronista e femminista

3 Ottobre 2010
di Letizia Paolozzi

L’elenco delle testate che hanno segnato la carriera di Adele Cambria è di una lunghezza spropositata. Passata attraverso “Il Mondo“, “Paese Sera“, “Il Giorno“ “La Stampa“, “Il Messaggero“, “L’espresso“, “L’Europeo“, “L’Unità“. Non solo. “Effe”, “Compagna“, “Lotta Continua”. E ne dimentico sicuramente qualcuna, questa cronista “gazzettiera“, con un modesto interesse per la carriera e molta inimicizia per i conformismi, racconta di sé in “Nove dimissioni e mezzo. Le guerre quotidiane di una giornalista ribelle” (Donzelli 2010). Mettendo in scena cinquanta anni di giornalismo italiano (che nel frattempo è cambiato in peggio) e di un mondo femminile (che è cambiato in meglio).

Immaginate una ragazza di Reggio Calabria che se ne viene nel 1956 da sola a Roma. In valigia si porta la voglia di vincere. Scoprirà ben presto che non è tanto facile per il suo (e il nostro) sesso e sfuggire al ricatto che costringe le donne a scegliere tra lavoro e maternità. Lei tignosamente difende ambedue. Sia quando le chiedono di firmare con uno pseudonimo maschile, sia quando la rimandano a casa perché è ovvio che si dedichi ai due figli. La famosa “doppia presenza“ equivale al doppio sforzo, alla fatica di rendersi credibile senza rinunciare alla propria dignità.
Munita di indignazione e frivolezza, spavalda e seria, come solo alcune donne sanno fare, Cambria procede intervistando grandi personaggi di cui a volte non sa praticamente nulla. Il libro procede avanti e indietro negli anni. Compaiono intellettuali, scrittori, attori. E donne, tante. Seguite con uno sguardo di ammirazione, di affetto. In quel tempo era piacevole partecipare alle conversazioni in treno“. I viaggiatori non stavano attaccati al cellulare. Il “bel mondo“ aveva una sua nobiltà.

Il lavoro di giornalista era svolto con passione, con eticità. Probabilmente, proprio quel genere di lavoro che però costringe a lambire corpi, fotografare abiti, carpire battute ha spinto Cambria a scrivere di sé, in una specie di autobiografia necessaria. La giornalista deve aver sentito il bisogno di ricomporre il quadro. È stato così per molte giornaliste, dalla intervista di Grazia Cherchi a Camilla Cederna a “Un cappello pieno di ciliegie“ di Oriana Fallaci.
Dopo un’estate, questa estate, passata a misurare i metri quadrati di un appartamento a Montecarlo e l’angolo cottura arredato dalla Scavolini, il libro “Nove dimissioni e mezzo” descrive un altro clima. In cui le cose potevano essere serie, e c’era piacere per i primi soldi guadagnati e per la polemica appena esplosa e per la capacità di indignarsi, di contestare, di opporsi alle ingiustizie.

Non ci troverete nessuna nota nostalgica, però. Solo il racconto di una donna che è riuscita a orientarsi nelle beghe appassionate del femminismo (amicizia con Le Nemesiache, discussioni a Rivolta femminile, testo scandaloso per il Pci sulle donne di Gramsci), nelle drammatiche vicende di Lotta Continua. Una intellettuale che ha incrociato l’ammirazione di Federico Fellini, partecipato ai film di Pier Paolo Pasolini. Molto altro ci sarebbe da aggiungere intorno al libro. Meglio lasciare il lettore, la lettrice al piacere della scoperta. Con un’ultima domanda: è Adele Cambria che ha dedicato se stessa al lavoro di giornalista oppure è il giornalismo che ha fatto di Adele Cambria quello che è?

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