Scritto da Edoardo Nesi “Storia della mia gente“ (Bompiani) è un libro quasi femminile. Lo dico perché sembrerà una forzatura eppure l’autore parte da sé per narrare il tragitto paradigmatico di uno dei tanti industriali di provincia di quella Terza Italia che fu ricca e ora è fallita.
Nel settembre 2004 Edoardo, erede della T.O. Nesi & Figli, ovvero la Temistocle Omero Nesi & Figli, si separa dall’azienda di famiglia. Tre anni prima, assieme al crollo delle Due Torri, c’era stato l’ingresso della Cina nel Wto. L’arrivo delle operaie cinesi già si era visto ma da quella data lo scossone si trasforma in un terremoto. In quel distretto dove ascoltavi il rumore della tessitura che ti faceva trattenere il respiro “come ai neonati quando gli soffi in faccia” e se il rumore superava spesso i novanta decibel, era comunque il tuo rumore, quello che ti aveva cullato e cresciuto te industriale e te addetto. Senza distinzioni di classe, il tessitore e il proprietario. Non ti sentivi un padrone, di quelli grassi accompagnati da signore impellicciate, alla maniera dei disegni di Grosz. L’operaio di Prato, d’altronde, non ebbe mai modo di sentir parlare del “gatto selvaggio“ o degli scioperi “a scacchiera“. Qui aveva messo radici un particolare laburismo. Con il sindacato, il Pci, gli insutriali. Le tagliatrici, le cucitrici: riformismo doc era, di modo che la preoccupazione del presidente della Confindustria, Angelo Costa: “Fate che gli italiani non perdano la voglia di lavorare“ (più o meno se lo augurava alla fine degli anni Sessanta, quando gli operai alla Fiat la voglia la stavano perdendo), qui non la capiva nessuno.
Condizione eccezionale. Edoardo Nesi, tanti con lui, era convinto che sarebbe durata in eterno. Alla fine scriverà una storia della storia che ha lasciato. Sua e della sua “gente“ che, grazie ai maglioni di lana e poi al cachemire, produceva ricchezza in una sorta di universo parallelo tra casa e capannone, dove non si capivano i confini dell’uno e dell’altra.
A voler insistere su quel tanto di femminile che c’è nel libro (comprese le operaie del distretto tessile), andrebbero messe in fila pure la trama, l’intreccio e la tessitura. Ci si sofferma l’autore e Freud le citava nel saggio sulla Femminilità attribuendole, con una antropologia arrischiata, alle donne.
Dopodiché “Noi Nesi abbiamo dovuto zittirla, la nostra tessitura”. Gli economisti, Francesco Giavazzi (editorialista del “Corriere della Sera”) in primis, hanno guidato le danze: adattatevi alle nuove regole del mercato; affrontate l’apertura degli scambi commerciali mondiali. Non dovete avere paura della modernità globale.
Prato adesso che si è aperta alla modernità globale, sta al settantesimo posto nella qualità della vita tra le città italiane. Mentre era tra le prime. Intanto, una comunità di trenta, quarantamila cinesi si aggira per le strade. Chiamati da padroni cinesi, che del riformismo non sanno che farsene. Quanto alle tintorie in molte sono passate di mano; gli industriali non hanno retto la concorrenza; i laboratori usano stoffe importate dalla Cina, marchiate Made in Italy.
Dario Di Vico sul “Corriere della sera“ ha spiegato che “il caso Prato“ è una “metafora della cattiva globalizzazione“. Incerto, sull’esistenza di una globalizzazione buona e di una cattiva, il nipote di Temistocle, Edoardo, si affanna ogni giorno con una intervista a qualche giornale, a spiegare, lui diventato scrittore, il caso di quel distretto e la memoria degli straordinari e fragilissimi artigiani pratesi “lontani pronipoti dei mastri di bottega medievali“ costretti a fare i conti con la globalizzazione.