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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Se il duello ora è fra donne

13 Febbraio 2010
di Letizia Paolozzi

Non è tanto simpatico doverlo ripetere, ma ho l’impressione che la leadership maschile non si senta molto bene. Come spiegare altrimenti queste sfide per le prossime elezioni regionali dove, se a candidarsi come presidente è una donna, l’antagonista, il duellante, spesso è un’altra appartenente al sesso femminile? Accade nel Lazio con Polverini-Bonino. E poi in Umbria con tre signore: Maria Antonietta Farina Coscioni (Lista Bonino-Pannella) che sta raccogliendo ancora le firme, Catiuscia Marini, vincitrice delle primarie nel Pd e Fiammetta Modena Pdl.
Un uomo, un politico sembra non possa reggere la sfida con quello che una volta si sarebbe chiamato il “sesso debole”. Se va avanti così, tra qualche tempo la classe dirigente (maschile, ma quando mai è stata femminile?) dovrà invocare le pari opportunità. Forse dipende dai gesti poco autorevoli collezionati in ambito maschile. Non è un reato l’incontinenza sessuale o la richiesta di signorine per concedersi il riposo del guerriero o lo slittamento semantico tra “ripassata“ e “rilassata“.
Certo, resta il fatto che la categoria dei costruttori è assolutamente infrequentabile (come ci dimostrarono i “furbetti del quartierino“ e oggi “i re di Settebagni“). Ma è la classe dirigente – pomposamente intesa – a perderci la faccia. Ovvero, a trovarsi screditata, come sta accadendo persino con le beghe curiali attizzate, montate o inventate dai direttori di giornale e, per una curiosa eterogenesi dei fini, dagli atei devoti. Ciò che accade nel caso di politici (da Berlusconi a Marrazzo a Del Bono), di servitori dello Stato come Bertolaso, fino agli scontri – l’un contro l’altro armati – tra l’ex magistrato de Magistris e l’ex magistrato Di Pietro, è che si sfarina l’autorità maschile. Il sesso forte la sta perdendo; gli scivola dalle mani.

Anche se non voglio dire che quello “debole“ sia migliore o peggiore. Tuttavia la reazione istintiva rispetto alle donne è che magari, con loro, con noi, il mondo sarebbe un po’ più pulito. E onesto. E meno vanaglorioso, meno arrogante. Ornella Vanoni cantava: proviamo anche con Dio, non si sa mai. Ora è il momento di provare anche con le donne. Di ciò si parla, si scrive, si ricama: duelli rosa, sfide al femminile. Sono sintomi, certo. Niente di più. Ma abbastanza interessanti. Purchè gli si presti attenzione. Purché si capisca che dietro la crisi c’è la perdita di autorità che dovremmo provare a arginare, perché quello che succede agli uomini riguarda anche il sesso femminile.
A poche settimane di distanza sono usciti nuovamente molti titoli sul lavoro delle donne. Si capisce, si desume dalle cifre che non siamo più l’esercito di riserva, la quota debole. Pur tra mille difficoltà, resistiamo meglio alla crisi. D’altronde, molti economisti insistono: l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro rappresenta il contributo maggiore alla crescita dei paesi sviluppati nell’ultimo secolo.
Con una differenza fondamentale dal passato e da quell’emancipazione che ti costringeva a scegliere: o fai figli o lavori. Adesso le donne vogliono lavorare e fare figli. Senza subordinare al lavoro quel mondo di relazioni che appartengono alla vita di ognuno.
Dunque, bisognerebbe ascoltare quello che le donne raccontano dei loro investimenti sul lavoro. E della sua qualità, scambio, gratificazioni che, generalmente, precede, oppure è altrettanto importante dell’entità dello stipendio. Amartya Sen, l’economista, l’aveva previsto: una grande parte dell’attività economica non è riconducibile alla sola motivazione della ricerca del profitto.
In questi giorni si è aperto sul “Giornale“ un dibattito dopo che un giovanotto ha lamentato la scelta della sua compagna di abortire. Magari, ha osservato la ministra Meloni, perché le donne si rimettano a fare figli bisognerebbe legare insieme lavoro e maternità come è avvenuto in Francia. Magari bisognerebbe guardare all’opzione femminile del part-time, magari bisognerebbe convincere gli uomini a condividere le responsabilità con le donne (Maurizio Ferrera, autore del “Fattore D“).
Nel centrodestra si cita in modo salvifico il “quoziente familiare“. Peccato che la sua introduzione produrrebbe effetti disincentivanti sul lavoro femminile, in un Paese che ha la percentuale più bassa di impiego delle donne in Europa (47%). Spero che a nessuno, nel centrosinistra, venga in mente di contrapporre al “quoziente familiare“ politiche di incentivo al reddito nudo e crudo come i bonus per l’asilo nido. Da sola, la rivendicazione di asili nido non basta. La soluzione non è qui, nel meccanismo produttivistico per cui una donna dopo aver partorito torna subito a lavorare (conosco delle madri che vogliono passare con il loro bambino i primi due anni di vita) e neppure nell’obbligare il padre per legge a stare con il bambino. Ecco, per modificare il mercato del lavoro non bastano le leggi. E per vedere delle donne sfidarsi a governare, non bastano “le discriminazioni positive“ o le quote rosa.

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