Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

Libertà e lavoro

17 Febbraio 2010
Questo articolo è uscito anche su "Critica Marxista"
di Alberto Leiss

Negli Usa le donne stanno per superare la soglia del 50% nel mercato del lavoro – Per l’Economist è “il più grande cambiamento sociale dei nostri tempi” – In Italia il manifesto “Immagina che il lavoro”, della Libreria delle donne di Milano, afferma che la femminilizzazione è una leva per sovvertire il rapporto tra lavoro e vita, e per una nuova idea di libertà e di politica – Una domanda rivolta agli uomini, oltre il discorso della parità.

Il 2010 si è aperto con una notizia rimbalzata sui giornali italiani dalla copertina dell’Economist: vi si vede l’immagine di una donna americana che risale agli anni della seconda guerra mondiale. La ragazza non rinuncia al trucco ma indossa una tuta blu, stringe il pugno e scopre i muscoli del braccio. Nel manifesto originale l’immagine era accompagnata da una frase vagamente obamiana ante litteram: “We can do it”. Noi possiamo farcela. Cioè: noi donne possiamo sostituire i nostri uomini in guerra nei lavori anche pesanti che hanno sempre svolto loro. Nel 2010 la copertina del settimanale inglese recita invece: “We did it!”. Ce l’abbiamo fatta.
Non solo le donne sono entrate in modo permanente nel mercato del lavoro, anche in mansioni solitamente riservate al sesso cosiddetto forte, ma – almeno in America – stanno diventando la maggioranza del mondo del lavoro. Ecco la notizia che ha sollevato un certo scalpore: che cosa accade – si chiede l’Economist – quando le donne diventano più della metà della forza lavoro?
E’ significativo che il primo quotidiano italiano ad accorgersene sia stato un “organo” della destra, “Il Giornale”, che alla notizia ha fatto seguire un dibattito imperniato non senza accenti interessanti sulla “fine” del femminismo o meglio di un certo vittimismo femminile. Lo osservo di sfuggita per sottolineare una capacità di presa egemonica che dimostrano gli apparati culturali della destra, anche nei luoghi solitamente ritenuti, e non senza qualche ragione, più “ottusamente” e faziosamente schierati. E’ seguito un articolo di Vittorio Zucconi sulla “Repubblica”, e vari commenti su diversi media. In genere per lamentare la ben diversa condizione delle donne che lavorano in Italia.
Pochi però – come troppo spesso succede nel giornalismo nostrano – si sono dati la pena di leggere attentamente gli ampi articoli del settimanale economico inglese, che alla questione ha dedicato l’editoriale principale, un commento “teorico” e un ampio servizio descrittivo che prende in esame la situazione in diversi paesi del mondo.
Vengono sottolineati e documentati alcuni temi che in parte stanno entrando ormai nel senso comune (assai meno nell’agenda mentale e pratica di partiti e sindacati). Intanto la tendenza delle donne a entrare nel mercato del lavoro è in espansione da tempo, almeno nei paesi occidentali, ma non solo.
Nell’Unione Europea dall’anno 2000 a oggi sono stati creati circa 8 milioni di nuovi posti di lavoro: ben 6 milioni sono andati alle donne. Negli Stati Uniti sembra che la stessa crisi – anche per motivi “negativi”: le donne sono più “flessibili” e costano meno – penalizzi più i maschi, la cui disoccupazione è all’11,2%, che le femmine, oggi disoccupate nella misura dell’8,6%. Questa trasformazione viene definita senza mezzi termini come “il più grande cambiamento sociale dei nostri tempi”.
Appena una generazione fa – si osserva – le donne erano largamente costrette a lavori ripetitivi e poveri di contenuto, sottoposte a continui comportamenti sessisti da parte dei maschi, costrette a tornarsene a casa al primo figlio. Oggi primeggiano nelle professioni, sono già ben più che la maggioranza dei laureati in America e nei paesi europei del Nord Europa, anche se restano molti problemi – che analizzeremo meglio in seguito – a cominciare dalle difficoltà a raggiungere i livelli alti delle carriere e dal permanere di penalizzazioni rispetto ai maschi nei livelli retributivi.
Naturalmente le situazioni sono diverse da paese a paese. L’Economist ricorda le resistenze all’avanzata femminile nel lavoro che vengono opposte nel mondo arabo, in Giappone, e anche in alcuni paesi europei mediterranei, come l’Italia. E osserva che in queste situazioni si pagano “alti prezzi” in termini di spreco di talenti e di frustrazione dei cittadini.
Se guardiamo il grafico che sintetizza le tendenze del tasso di occupazione femminile per i paesi più industrializzati vediamo svettare la Danimarca e la Svezia che arrivano quasi al 75%, seguite da Inghilterra, Usa, Germania, Francia, Giappone, e , buon ultima, l’Italia.
Già l’Italia. L’arretratezza del nostro paese da questo punto di vista è ben nota. Nel primo trimestre del 2009 (dati Cnel e Istat) il tasso di occupazione femminile italiano è del 46,3%, ben distante dal 60% indicato dagli obiettivi di Lisbona, per non dire del 65,5% già raggiunto dalla Germania, del 65,2% del Regno Unito. Se torniamo al grafico dell’Economist vediamo che la linea relativa all’Italia sta molto più in basso rispetto a quelle degli altri paesi, ma è però – come e più delle altre – una linea in costante ascesa. Parte nel 1997 poco sopra il 35% e arriva nel 2008 oltre il 45%.
Secondo il Cnel anche nei mesi della crisi lungo il 2008 l’occupazione femminile è cresciuta in Italia. Anche se è doveroso aggiungere che negli ultimi anni la diffusione del precariato ha penalizzato soprattutto le giovani donne (che però, almeno in parte, preferiscono attività autonome grazie alle quali organizzano meglio la propria vita).
Ecco il dilemma. Bisogna guardare al mezzo bicchiere pieno, e che continua a quanto pare a riempirsi, o alla cospicua parte vuota che segnala il gap rispetto agli altri paesi occidentali?
Il punto è che la media italiana, come sappiamo, non dice molto della realtà effettiva del paese. Infatti il vero e macroscopico problema è la situazione del Sud, dove il tasso di occupazione femminile in alcune regioni precipita sotto il 30%, mentre in Emilia Romagna è al 63%, oltre l’obiettivo di Lisbona e vicino ai livelli tedeschi e inglesi, in Lombardia al 56,9%, in Liguria al 55,1%. Se poi si affina lo sguardo si scopre che, prendendo in considerazione le fasce di età tra i 35 e i 44 anni il tasso di occupazione femminile in Lombardia sale al 72,6% (dati Eurostat per il 2005) (Nota 1).
Dunque anche in Italia, se si guarda alla tendenza sinora prevalente, oltre a battersi contro resistenze e lacune, sarebbe il momento di chiedersi che cosa succede quando l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro da luogo al “più grande cambiamento sociale dei nostri tempi”. Capire quali mutamenti produce nei luoghi di lavoro e nelle relazioni sociali e personali questo mutamento è infatti il solo modo per individuare anche le strategie e le politiche efficaci perché i ritardi siano superati, si eviti la dispersione di talenti, e soprattutto si superi la frustrazione di cittadine e cittadini.
In questa direzione ha lavorato per molti anni raccogliendo i “racconti” provenienti dal mondo del lavoro femminile un gruppo della Libreria delle donne di Milano. Questa ricerca ha dato luogo a numerosi testi (Nota 2) e più recentemente a un “manifesto” intitolato “Immagina che il lavoro” che si è aggiunto alla serie storica dei “Sottosopra” prodotti negli anni dalla Libreria di Milano (Nota 3).
Il punto di vista da cui si colloca questo testo è ben sintetizzato dal sottotitolo: “Un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini scritto da donne e rivolto a tutte e tutti perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più”.
Una doppia novità è dunque il fatto che un documento femminista si rivolga anche agli uomini e affermi subito che si tratta di andare oltre l’elaborazione fin qui compiuta dal femminismo stesso, nelle sue varie componenti.
Il lavoro modificato radicalmente dall’ingresso massiccio delle donne viene visto come una leva fondamentale per affermare una nuova libertà per donne e uomini, e una nuova idea di politica.
Anche l’inchiesta dell’Economist individua alcuni aspetti qualitativi e problematici. Il modello di comportamento e la spinta del desiderio che le donne portano nel lavoro sembra diversa da quella maschile. Meno orientata alla competitività e al rischio, e più alla relazione e alla cooperazione. In una frase: forse se Lehman Brothers fosse stata Lehman Sisters non sarebbe fallita. Se altri principi e altre finalità avessero governato l’economia mondiale non si sarebbe verificata una crisi così catastrofica.
D’altra parte il settimanale inglese vede bene le difficoltà di un completo inserimento delle donne nel mercato del lavoro: le contraddizioni esplodono quando al lavoro produttivo si aggiunge – come avviene in tutto il mondo – il lavoro necessario per assicurare la riproduzione della vita, la cura degli affetti, per coltivare le relazioni familiari e di amicizia.
La risposta dell’Economist si sofferma sull’esigenza di modificare un welfare prevalentemente modellato su una società in cui era soprattutto il maschio a lavorare nella produzione, mentre alla donna era assegnato il lavoro domestico non retribuito. Ci sono gli esempi del Nord Europa. Ma anche nella ricerca del settimanale inglese si avverte che non è sufficiente garantire asili nido e permessi di maternità e paternità. Si citano le aziende che hanno cominciato a sperimentare formule di attività e tempi di lavoro più flessibili, anche grazie all’uso delle nuove tecnologie.
Ma la domanda radicale non la troviamo in questi articoli: come deve modificarsi il lavoro stesso per rispondere alle nuove richieste e ai nuovi desideri che portano con sé le donne, e anche alle modificazioni nel modo di essere che questa trasformazione induce negli uomini?
E’ questa invece la strada che percorrono le donne del “Sottosopra” “Immagina che il lavoro”. Non l’insistenza sulla “parità”, che pretende di omologare i comportamenti delle donne ( e degli uomini) ai modelli prevalenti e imposti dalla componente maschile (rigidità e lunghezza degli orari, competitività esasperata, una “meritocrazia” che quasi sempre è basata più sulla “fedeltà” alle logiche aziendali e accettazione delle gerarchie burocratiche che non sulle effettive capacità e vocazioni). Ma il riconoscimento della differenza dei sessi e l’eliminazione della tradizionale separazione tra il lavoro e la vita.
Il primo passo è fare cadere la barriera culturale, simbolica, che separa il lavoro per la produzione da quello che assicura la riproduzione, che tiene insieme le nostre vite. Il lavoro “domestico” viene fatto soprattutto dalle donne anche in quei paesi nordici in cui lo stato sociale è più efficiente. In Italia i maschi sono “fannulloni” soprattutto a casa e con i figli, infatti dedicano a queste attività meno di due ore al giorno, mentre i loro colleghi norvegesi arrivano a 2 ore e 24 minuti. Ma se le italiane sono quelle che lavorano di più (quasi sei ore al giorno comunque dedicate alla casa) anche le norvegesi sono più impegnate dei loro compagni e mariti, con 3 ore e 36 minuti quotidiane.
La verità – dice il documento – è che certo si tratta di ingiustizie, ma anche che “la cura dell’esistenza non è eliminabile dalle nostre vite”. E che questo lavoro “non è neppure destinato a ridursi. Anzi è matrice del futuro. Tende a crescere perché il sistema sociale ed economico sposta sui singoli individui nuove responsabilità”. E basta pensare – ecco un punto che il “Sottosopra” manca di prendere in considerazione – al nuovo tipo di relazioni e di contraddizioni che produce e che è prodotto dalla diffusione della figura della “badante” nelle nostre case, non solo quelle dei più ricchi.
Le politiche di “parità” e di “conciliazione” non sono la soluzione perché basate su “una semplificazione che non approda a nulla”. E che tende a rimuovere soprattutto il desiderio delle donne – ma in una certa misura anche dei “nuovi padri” – di stare con i figli e di “lavorare bene”. Non solo il patriarcato è al tramonto, perché “è morto nel cuore delle donne”, ma è morta anche l’idea di parità, “cioè l’esigenza di misurarsi con i paradigmi di un mondo regolato solo dagli uomini. Le figlie e le nipoti delle donne che hanno corroso i pilastri di quel mondo con la prima autocoscienza, si muovono oggi accanto ai loro compagni di strada, confusi spaventati guerrieri, e sentono riduttive e vecchie tutte le etichette”.
Dunque è una prospettiva completamente nuova di liberazione “nel” e “del” lavoro che si apre, e che richiede una ridefinizione radicale della stessa idea di che cosa è lavoro. E quindi di quali siano le gerarchie di valore che regolano la razionalità economica, le dinamiche tra desideri e consumi, la considerazione degli interessi reali di ogni singola persona. Con l’idea che il cambiamento possa essere prodotto prima di tutto dalla diversa qualità delle relazioni che si costruiscono nel mercato, portandovi non solo interessi e ambizioni mediate dal denaro, ma anche i sentimenti e i desideri che animano le nostre vite. (Nota 4)
Si può naturalmente dissentire dalle analisi e dalle indicazioni di questo testo, ma è indubbio che esso rappresenti il risultato di un lavoro sul campo che ha colto una trasformazione reale, che tende a essere rimossa nel discorso prevalente della politica. E che può invece offrire un punto di vista alternativo e costruttivo: “Immagina che questa politica morta, che vedi oggi intorno a te, venga infine sepolta e faccia spazio a qualcosa di nuovo che si alimenta della vita narrata da ogni persona. Moltissimi pensano che tutto questo sia impossibile e quindi vano e dannoso immaginarlo. Anzi, poiché pensano che sia vano e dannoso immaginarlo, dicono che è impossibile. Noi pensiamo invece che guardare oltre e forzare i confini dà vantaggi e fa crescere la libertà”.
Credo che a noi uomini, specialmente uomini di quella sinistra che ancora ripete di volersi fondare sul lavoro, ma che continua a vagare e a sbattere contro vecchi e nuovi ostacoli come se avesse una benda sugli occhi, spetti il tentativo di formulare una risposta e di tentare un nostro racconto. Queste amiche ci ripetono “con affetto”: “Quello che forse non hai ben capito è che la nostra libertà cambia la tua, di vita, mette in discussione il tuo lavoro la tua economia la tua politica. Pensaci, pensateci”.

Nota 1 – citato in “Il doppio si”, quaderno di Via Dogana edito dalla Libreria delle donne di Milano.

Nota 2 – oltre al già citato “Il doppio sì”, vedi i quaderni di Via Dogana “Parole che le donne usano per quello che fanno e vivono nel mondo del lavoro oggi” e “Tre donne e due uomini parlano del lavoro che cambia. Femminilizzazione del lavoro e postfordismo”.

Nota 3 – il “Sottosopra” “Immagina che il lavoro” è stato scritto da Pinuccia Barbieri, Maria Benvenuti, Lia Cigarini, Giordana Masotto, Silvia Motta, Anna Maria Ponzellini, Lorella Zanardo, Lorenza Zanuso. Nel sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it ) si trovano molti interventi del dibattito che ha suscitato.

Nota4 – vedi anche il capitolo “Il lavoro e la vita” nel libro “La paura degli uomini. Maschi e femmine nella crisi della politica” di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, edito dal Saggiatore.

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