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La malattia degli uomini

5 Novembre 2009
di Nicoletta Salvemini

Riflessioni a margine del libro “La paura degli uomini” di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss nell’incontro di Lecce.

Paura degli uomini.

Androfobia o ginecofobia? La paura che FANNO gli uomini (alle donne) o la paura che HANNO gli uomini (delle donne)?

Gli autori utilizzano nel titolo un’espressione polisèma.

E già con questa scelta si annunciano: del mondo si può fare una differente lettura perché lo sguardo che rivolgiamo sulle cose non è mai uno sguardo neutro ma sessuato.
Prima di essere di un bianco/a o di un nero/a (a seconda la razza).
Di parlare l’italiano o il tedesco, il francese o il griko ( a seconda la lingua).
Di essere ateo o credente ( a seconda la religione).
Di sinistra o di destra ( a seconda l’ideologia).
Prima di essere giornalista, insegnante, scienziato, impiegato (che è una condizione lavorativa).
Di essere ricco o povero, coniugato o celibe/nubile.
Prima di essere tutto questo si nasce uomo o donna: perché la prima differenza del genere umano, quella dalla quale tutte le altre discendono è la differenza sessuale.
Lo fa anche la nostra Costituzione, nell’enunciare il principio di uguaglianza. Siamo tutti uguali senza distinzione di sesso (prima differenza), razza ,lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

A Clelia Mori, nella recensione pubblicata sul Paese delle donne, fa stupore la sintonia della scrittura in un libro scritto a due mani, da una donna e da un uomo. Lei stessa poi si dà una risposta, considerandolo il frutto di una ricerca sulla differenza e sulla parzialità.
A me sembra che la risposta sia quella che troviamo nella parole di Giacomo Marramao che ha elaborato il concetto di universalismo della differenza. ”Per lungo tempo dovremo disporci a scrivere con una mano la parola universalità, con l’altra la parola differenza. Per lungo tempo dovremo resistere alla tentazione di scrivere entrambe le parole con una mano sola. Poiché sarebbe, in ogni caso, la mano sbagliata”.
Ecco allora l’uso di due mani differenti: di un uomo e di una donna.

Ritorniamo al titolo e rispondiamo alla domanda dopo aver letto il libro.
Che parla non della paura che FANNO gli uomini ma della paura che HANNO gli uomini. La prima è figlia della seconda.
Perché molti uomini hanno paura dell’intelligenza, della libertà, della capacità di decidere, dell’autodeterminazione delle donne. Una crescita (dietro la quale c’è il femminismo, come sottolineano ripetutamente gli autori) che li spaventa, li sconvolge, fino a renderli violenti. Una crescita che vivono come una minaccia, anziché come occasione per riscrivere la relazione conflittuale tra i sessi.
Paura che genera impotenza. Non parlo di quella sessuale ma di quella esistenziale, quella che genera spaesamento, quella che non viene nominata ma agita con l’esito paradossale che la domanda di cura di questo malessere viene formulata per interposta persona, per “pro-cura” dice Paola Zaretti, psicoanalista. “Curare in absentia” continua.” Esportare la cura fuori dai luoghi privati solitamente deputati alla cura, fuori dal setting, questo il compito che oggi hanno i curatori d’anime, una diagnosi in absentia che non serve a curare i fuggiaschi ma può servire a mutare prospettiva nel modo di considerare quanto accade intorno a noi. Serve a chiedersi, se non altro, se e in che misura la fuga degli uomini da una riflessione su se stessi e dalla ricerca di una consapevolezza sul proprio mal-essere non sia, proprio la più temibile delle malattie. L’incredibile e progressivo aumento di atti di violenza compiuti nelle forme più svariate dei rappresentanti del genere maschio contro le donne, convoca e chiama direttamente in causa i limiti del Sapere clinico di alcune discipline, dei loro fondamenti teorici e delle varie pratiche di cura – psichiatrica, psicanalitica, psicologica e psicoterapeutica – denunziando al tempo stesso un’omissione e una trascuranza quanto mai sospette circa il mancato riconoscimento, da parte degli esperti e cultori di queste discipline, dell’estrema pericolosità delle patologie maschili, del loro carattere insidioso e dei loro effetti devastanti nel politico come nel sociale.”

Concludo con un grazie a Franca Chiaromonte.
Conosco il suo amore per gli animali e non mi stupisce il suo intervento sulla pecora Dolly.
Ammiro la sua capacità di non essersi fermata sulla soglia del dolore per la sua morte ma di essere andata oltre, di essere riuscita a fare della sua soppressione- per eutanasia- una riflessione profonda sulla bioetica.

Franca si chiede, provocatoriamente “come mai la creazione di un essere senziente, capace di sofferenza, fa meno problema morale della sperimentazione e creazione di cellule embrionali umane non senzienti, non sottoposte quindi a rischio di sofferenza”.

E la sua risposta è che la morale, quando si parla di bioetica, non è una.
Lei dice che è un modo per ricordare la pecora Dolly.
Io dico che lo sguardo di Franca su Dolly non è stato solo compassionevole ma è andato oltre, vedendo in quella morte un problema di bioetica.
Il suo sguardo ha rotto i confini e si è allargato. Si è fatto strabico.
E’ questo il suo il mio il nostro auspicio. Che gli sguardi rompano i confini costruiti da chi vuole farci vedere solo la superficie delle cose, occultando quanto di più profondo la realtà racchiude.

Che i nostri sguardi si facciano strabici.
Senza dimenticare che lo strabismo non è di Marte ma di Venere.

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