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“Papi”, i leoni di Wittgenstein e il naso di Kant

2 Settembre 2009
di Gabriella Bonacchi

Gran parlare questa estate di sesso e potere. Mi ha colpito, a proposito di regressioni (vocabolo tra i più correnti) il ritorno trionfale della parola sesso per indicare non già un singolo elemento (es.: il sesso femminile o il sesso maschile) ma quell’insieme di relazioni – tra i due sessi e tra le dimensioni della vita personale – che il femminismo ha educato a chiamare sessualità.
Si è tornati a parlare di sesso come faceva Otto Weininger nel celebre Sesso e carattere che nel 900 apre, insieme all’ Interpretazione dei sogni di Freud, quella che oggi potremmo definire la biocultura del soggetto. Inizi del 900, appunto. Che cosa abbiamo oggi di diverso rispetto all’ epoca inaugurata da Freud e Weininger con la loro insistenza sui condizionamenti del superuomo della belle epoque?
Di diverso abbiamo – dicevo – l’ ”educazione” del femminismo. Ma sento – a questo punto – di dovermi spiegare meglio. Per educazione del femminismo penso infatti non già al classico processo pedagogico di trasmissione di un retaggio, bensì – al contrario – alla creazione di un’eredità, la cui storia è stata molto efficacemente ricostruita da Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi nella pagina de “il foglio” dedicata a La coscienza è femmina (22.8.2009).
Alle tappe indicate da Chiaromonte e Paolozzi non ho infatti da aggiungere che alcuni passaggi, che tuttavia mi preme mettere in rilievo. Mi riferisco a un grande nome maschile, necessario quando si parla di corpo e sessualità e linguaggio: Ludwig Wittgestein. E’ a lui che si ispira infatti tutto il lavoro fatto, dopo Freud e Weininger, non solo per proclamare l’indicibilità dell’indicibile (il famoso “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”) ma, anche del rovescio positivo di questa affermazione-pilastro del nostro tempo: il carattere artificiale della dicibilità.
E’ questo a ben vedere che ridefinisce il confine tra dicibile e indicibile in un modo così importante per noi (ah, se i leoni potessero parlare, sospirava Wittgenstein nel fondare la svolta linguistica che ha segnato tutta la filosofia del secondo 900). E’ a lui che dobbiamo la fondazione linguistica della libertà, la denuncia del carattere comunitario – dunque relazionale – dell’atto presuntamene libero del superuomo. Così, a un certo punto, quando i leoni-femmina si sono messe a parlare, molti non le hanno intese (come aveva puntualmente previsto Wittgenstein) ma loro, loro sì che si sono intese!
La relazione tra una donna e l’altra, il riferirsi reciproco tra “leonesse parlanti” ha consentito l’emergere di biosoggetto, per così dire, completamente nuovo e che pensa dunque in altri termini la sua libertà. La costruzione di nuovi criteri per distinguere tra ciò che è libero e ciò che non lo è: ecco l’eredità che ha conferito a Veronica Lario, a Barbara Berlusconi e a Patrizia D’Addario l’autorevolezza di un dire a partire dall’”indicibile” (la sessualità, il privato) e di farsi intendere da chiunque veda oltre il naso di Kant.

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