Bisognerebbe amare la verità. Forse allora si uscirebbe dall’impasto di disgusto, voyeurismo, impotenza a cui ci consegnano le vicende del nostro Presidente del Consiglio da quando sua moglie Miriam Bartolini in arte Veronica Lario con generosità ha deciso che le sue private vicende di moglie umiliata erano una vicenda pubblica, riguardavano l’intero paese.Bisognerebbe dirsi con franchezza quello che ci si confida nei salotti come nelle palestre e nelle beauty farm, che con “una che per trent’anni è stata la moglie di quello lì” non siamo in debito di nulla, tantomeno dello svelamento della scena impudica nella quale siamo immersi da tanto di quel tempo da non saperla neanche più vedere.
Peccato che questo obnubilamento iniziale, questo rigurgito misogino maschile quanto femminile verso una “che non ha gusto, non ha classe, non sappiamo chi sia, in fondo una che mette in piazza guai di famiglia” (espressioni che ricavo da una gran quantità di discussioni di questo mese) impedisca di trovare il bandolo di questa vicenda di cui, come cittadini e cittadine di questo paese, siamo forzatamente coinvolti.
Così rimane in tutto il suo splendore solo l’altro polo del problema, il presidente puttaniere. «Quello che io preferisco» ha detto lui medesimo, Silvio papi, – era una battuta, naturalmente – come ricostruiva ieri Gianantonio Stella sul Corriere della Sera. E cosa si può fare, con un puttaniere? Innalzare l’alto richiamo del rigore morale? Invocare i valori della famiglia? Ma da parte di chi? La sinistra? I politici della sinistra?
Forse solo i cattolici più autentici potrebbero trovare parole adatte per indicare le vie della virtù. Ma non solo vescovi e Vaticano sono reticenti. Di cattolici puttanieri, si sa, sono pieni le strade e i bordelli. Perché il problema del puttaniere è questo, che è un uomo comune. Così comune che il vizio di pagare le donne in Italia è condiviso da nove milioni di uomini. Forse la differenza con il presidente è solo nei “quantitativi”, secondo l’indimenticabile espressione di Niccolò Ghedini, che dice bene quello che è implicito in queste imbarcate di ragazze a venti alla volta. La quantità. Un elemento che sgomenta e aggiunge opacità a opacità, occulta la verità, sgradevole. Per esempio che avere liberato le pratiche sessuali, avere abolito la differenza tra donne perbene e donne permale, come insegnava Roberta Tatafiore, ha molte conseguenze, ma non ha reso meno vantaggioso e comodo per gli uomini comprarne i corpi. Ci sarebbe il problema della conquista, come dice lui stesso, Silvio B. rispondendo al direttore di “Chi” Alfonso Signorini che gli chiede se ha mai pagato una donna: «Naturalmente no. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia se non c’è il piacere della conquista». Ma il denaro non è il migliore degli strumenti di conquista, quello che tacita ogni resistenza? E perfino Papi non potrebbe rivelarsi così fragile da credere alle sua stessa messa in scena della gentilezza, dei regali, del fascino dello smagliante sorriso di uomo di mondo?
Quello che più sgomenta, nel guardare Silvio Berlusconi, è vedere il potere al lavoro. Vedere che non si basta mai, c’è sempre qualche altro territorio da annettersi. Sgomenta anche capire come lo spettacolo puro del potere nella sua intimità, senza filtro, ottunde e in un certo senso corrompe anche chi dal potere è distante. Non per caso i sovrani non avevano intimità, come ricordava qualche giorno fa Barbara Spinelli su “La Stampa”. Perché dello spettacolo del loro corpo esposto si nutriva il corpo simbolico della sovranità, come ha teorizzato Erst Kantorowicz a proposito del doppio corpo del sovrano, e in questo legame teneva avvinti i sudditi. Se il regno di Silvio Berlusconi è quello dell’apparenza, è nello schermo televisivo che tiene legati tutti, anche chi non lo sopporta, non è un caso che le veline più o meno diversamente pagate ne siano le officianti.
Se fosse possibile guardare da distante, con la freddezza di un antropologo proveniente da un altro pianeta, sarebbe perfino divertente studiare l’uomo che ha voluto rendere vera l’apparenza su cui ha plasmato gli italiani e le italiane dagli schermi tv fin dagli anni Ottanta, dai tempi di “Drive In.
Per questo solo la moglie, la donna che per vederlo come è ha dovuto andare oltre l’amore che la legava a lui, poteva dire la verità sul mago dell’incanto televisivo.
Una verità difficile da accogliere, non solo per il presidente puttaniere. Prima di tutto perché l’ha detta una moglie, figura dallo statuto incerto nella modernità. Fastidiosa agli uomini perché porta in luce ciò che il patriarcato relega nell’oscurità. Fastidiosa alle donne, che forse troppo poco hanno pensato a chi è una moglie, nell’epoca della libertà femminile.
Eppure il piccolo gesto di umiltà, virtù sempre necessaria per trovare la via della verità, di ascoltare con attenzione la voce di una moglie permette di afferrare l’indispensabile filo politico che porta fuori dal labirinto di immagini, finzioni, specchi che ci intrappola. Ci mostra il presidente quale è, scioglie le menti dei cittadini dalla presa del presidente puttaniere. E mentitore, come tutti i puttanieri, proprio per questo così difficili da smascherare, come sanno le donne che hanno la disgrazia di rimanerne catturate, loro hanno sempre in serbo un sorriso, una promessa tutta per te, faranno i bravi, proprio come Papi, che ora si rimette al lavoro. Ida Dominijanni, che in questo mese ha analizzato con costante lucidità questa vicenda sul Manifesto, a differenza di molte che vedono smarrito nell’impudicizia dominante il senso dell’autonomia femminile, ieri ha scritto che le veline vanno forse considerate come una perversione della post-emancipazione e del post-femminismo, piuttosto che come vittime sacrificali. È un rovesciamento importante. Ritengo che lo smarrimento diffuso tra donne, ma anche uomini, sia un effetto di quel pervertimento delle menti che pure si intende denunciare. Una forma di impotenza generata e coltivata da questo potere pervasivo, che vuole dominare i corpi attraverso l’invasione delle menti, come è successo nella terribile vicenda della legge sul fine vita.
Occorre un salto, riconoscere che la politica è qui, nelle forme che prende la vita quotidiana. Comprendere che la flebile opposizione, la sinistra arrivata alla sua fine, non trova una strada, in effetti si smarrisce, perché si ostina a chiamare gossip fondamentali snodi tra potere, strutture sociali, relazioni tra donne e uomini. Ammettere che se non si ha nulla da dire su questo non si può neanche pensare una seria soluzione alla crisi economica, che richiede un ripensamento dei modi di vivere.
Insomma, sarebbe il momento della presa di parola e di responsabilità dell’azione politica delle donne. Bisognerebbe crederci.