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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Tutti nel Pd. Ma come?

22 Giugno 2009
Pubblicato sull'"Altro" il 21 giugno 2009
di Letizia Paolozzi

Varrà la pena di discutere di un Super Pd, e dunque di bipartitismo, mentre l’avvocato di Silvio Berlusconi, deputato del Pdl spiega (sul Corriere della Sera) che il premier di ragazze “potrebbe averne grandi quantitativi“, immaginandosi le suddette ragazze come cinque chili di pere, mele, melanzane?
E però, lasciando da parte mercato ortofrutticolo e sperando che l’avvocato si emendi, magari risciacquando in Arno quella terribile lingua “di natura tecnico giuridica“ (secondo me, al premier dovrebbe venirgli il dubbio che un avvocato così omogeneo al suo fraseggio non sia la persona più adatta a difenderlo), provo a dire ciò che ho pensato della proposta del direttore de L’Altro, Piero Sansonetti, che riprende quella di Giuliano Ferrara sul Foglio (“tutti nel Pd“ ovvero il Pd come “partito di partiti“).
Capisco che apparire munita di una sua logica: buona cosa e giusta quella di costruire un soggetto unico in grado di reggere la competizione, assecondando la tendenza del sistema politico italiano al bipolarismo. Dunque, cerchiamo (mi riferisco alle sinistre, perché nel Pdl ci sono già arrivati) di acconciarci a questo soggetto unico. Programma, strategia, linguaggio, idee, cultura politica seguiranno. Per ora ci attestiamo sull’indispensabile forzatura. Giacché di forzatura si tratta. A meno che Sansonetti non si ispiri a quel politicismo che tanto piaceva ai comunisti di una volta.
Per fugare i miei dubbi, servirebbero dei partiti vivi e vegeti. In primis il Partito democratico giacché a lui si riferisce il marchingegno “tutti nel Pd“. Ma se il gruppo dirigente di un partito non risponde a nessuno delle proprie scelte, se i suoi dirigenti non riescono a uscire dalla coazione a ripetere, se scelgono i rappresentanti dei rappresentati in base a loro personali alchimie – aiutati in ciò da una legge elettorale oscena – , se non sono interessati a una politica dell’esperienza che tenga conto della realtà, se fragilissimo è il filo che li lega alle organizzazioni sindacali, se le sezioni sono state sostituite da circoli con le porte spesso sprangate, quale scambio, dialogo, contaminazione ci potrà essere con un simile partito?
Ora, non mi pare che dai difetti sopra elencati siano esenti quei raggruppamenti politici che si muovono oltre i confini del Pd – con l’unica eccezione dei Radicali – e che non sanno immaginarsi (perché si sentirebbero umiliati a rientrare nel luogo dal quale sono usciti? perché si conoscono troppo bene e non si sopportano più? perché vogliono preservare quell’ombra di potere che li rassicura, magari al riparo di una vecchia falce e martello?) una pratica politica relazionale.
Non sarebbe male un Pd con il ruolo federatore di cerniera. Anche rispetto alle forze di centro che, peraltro, mi appaiono più flessibili dei miei amici di sinistra. Per questo il progetto andrebbe come minimo precisato e approfondito.
Evidentemente, non sottovaluto le critiche che già sento: voi volete rinchiudere la politica nella dialettica semplificata e soffocante tra due soli grandi partiti che competono al centro, alla faccia del pluralismo e della democrazia, che già non gode di ottima salute. Il punto forse è proprio questo: se un partito non è solo potere di vertici autoreferenziali, ma un sistema di relazioni forti tra culture politiche diverse, tra politica e società, tra singole persone, donne e uomini, forse ad avvantaggiarsene sarebbe proprio una nuova pratica democratica e pluralista. Abbiamo già visto che la moltiplicazione di partiti e partitini non diminuisce affatto il verticismo, banalizza le culture politiche, produce confusione e delusione nell’elettorato. Allora proviamo a muoverci. Però evitiamo il politicismo giacché siamo di fronte a un lavoro di lunga lena.

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