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Il ruolo di Roberta all’AIMaC

21 Aprile 2009
di Francesco De Lorenzo

La nostra amicizia nacque grazie a quelle passioni, tutte declinate al femminile, che Roberta Tatafiore sapeva cogliere ogni volta che ne aveva l’occasione. Durante gli anni del giustizialismo di Mani Pulite, volle approfondire le mie vicende giudiziarie e si convinse del feroce accanimento che alcuni magistrati avevano mostrato nei miei confronti. Da qui, la sua decisione di contribuire alla stesura del libro «Attenti al lupo», con la stessa energia, con la stessa determinazione, con le quali aveva diretto un periodico di frontiera come «Noi donne». Fu un fulmine. Da quel momento ci siamo frequentati molto. È nata una grande amicizia. Da qui la sua volontà a partecipare in prima persona all’avventura di AIMaC, l’associazione di volontariato oncologico che presiedo, rovesciando in questa esperienza la sua passione civile, il suo amore per gli uomini e le donne che soffrono, il suo talento naturale di scrittrice.
Lavorava in una piccola stanzetta nella nostra sede, e per tre anni si è dedicata all’informazione di AIMaC, dal periodico AMICAIMaC (http://www.aimac.it/amicaimac/) che pubblichiamo, e che lei curava interamente, a un racconto documentato della storia decennale dell’Associazione.
Guardava i malati di cancro senza pietismo e indulgenze, ne coglieva tutti gli angoli della sofferenza, e talvolta dell’abbandono, e aveva capito con straordinaria sintesi la forza autonoma di un movimento così particolare. Le piaceva, sono sue parole, «l’idea di un popolo unito nell’obiettivo di prendere in mano la propria condizione per reclamare, per tutti e per ciascuno, le migliori condizioni di vita possibile». Da quella stanzetta, un autentico pensatoio, partivano così, come frecce, intuizioni, provocazioni, idee, notizie.
La vulcanica intelligenza di Roberta ci offriva ogni giorno nuovi spunti di iniziative, e mi colpiva, quasi con una sensazione di spavento, quella sua profonda attrazione per le “scelte libere”, senza pregiudizi, con le quali anche il sottile confine tra la vita e la morte diventava oggetto di un’autodeterminazione, di una prova di libertà. Attenta nell’analisi, critica e controcorrente nei giudizi, rigorosa nella stesura dei testi, Roberta aveva fatto del volontariato oncologico la sua prima battaglia, che affrontava a tempo pieno, sentendosi sempre e comunque dalla parte dei malati e delle loro famiglie. Il suo impegno, la sua dedizione, e anche una capacità di insegnare con discrezione e di camminare sempre contro vento, ne fecero un punto di riferimento di AIMaC.
Amava definirsi la nostra consulente editoriale ma era infinitamente di più. In poco tempo, innanzitutto le psicologhe e poi tutto lo staff, impararono a rivolgersi a lei per scovare nuove riflessioni, trovare nuovi spunti, anche polemici, per il nostro lavoro, dialogare senza barriere ideologiche e senza l’ingombro del paternalismo che spesso condiziona il volontariato oncologico.
La sofferenza, per Roberta, faceva parte della vita, di quella vita di cui ciascuno doveva sentirsi libero di disporre. Ma questa altissima concezione della libertà ci doveva spingere, dal suo punto di vista, ad alzare sempre la soglia dei nostri obiettivi, a sentirci tutti cancer survivors, come i due milioni di italiani colpiti dalla malattia. A non avere paura.
Qualche mese fa, fu lei a comunicarmi che aveva bisogno di un periodo di distacco dal nostro lavoro. Le chiesi di rifletterci e di non avere fretta nel prendere una decisione: confesso che il suo allontanamento da AIMaC mi spaventava, così come ha spaventato tutto lo staff. Oggi che abbiamo capito il senso di quella scelta così radicale, sentiamo il vuoto dell’assenza definitiva di Roberta, anche se continuiamo a vederla all’opera nella sua stanzetta. E continuo a sentire la sua voce, a leggere le sue parole, a percepire il suo carisma e l’amore che riusciva a trasmettere con tanta generosità e che noi proveremo sempre a ricambiare.

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