Chi è autorizzata/o a parlare della morte di una persona conosciuta, cara, amica, o solo conosciuta? Teoricamente chi vuole, a maggior ragione se si tratta di un personaggio pubblico, inteso nel senso più ampio del termine, come sicuramente Roberta Tatafiore è stata. Come farlo è faccenda più delicata: non solo per quel pudore che dovrebbe vestire il ricordo intimo della morte di un’amica ma in fondo anche se amica non ‘è, se di estranea si tratta. C’è chi ci riesce, chi no. Coccodrillo chiamiamo noi giornaliste/i il ricordo di un personaggio che la tua testata ti chiede di scrivere, e che dell’animale ha le lacrime fasulle perché non lo conosci, perché poco ti importa, perché è il tuo lavoro.
Come, dicevamo. Al suo suicidio di Roberta non smetto per il momento di pensare, ma lascio privato il mio dolore. Mi chiedo continuamente in queste ore cosa direbbe lei se avesse la possibilità di leggere cosa ha scatenato la sua deliberata e ben orchestrata morte, che penso prevedesse anche la discussione postuma. Se bene me la ricordo negli anni Ottanta nella redazione di Noidonne si sarebbe fatta gran risate leggendo titoli come “Femminista storica si uccide”, “A proposito di femminismo”, “La donna in rivolta”, che stanno comparendo in questi giorni su Il Foglio, L’Unita’, La Repubblica. In particolare Maria Serena Palieri che intervista la femminista Alessandra Bocchetti mettendo insieme il dato privato della morte di Roberta e quello pubblico della morte (a suo dire e di Bocchetti pure) del femminismo. “Quando una protagonista di un tempo collettivi – il femminismo, scrive la collega – decide liberamente che il suo tempo è finito, è facile che si sentenzi che anche quel tempo collettivo, quella cultura è suicida.” A supportare le stagioni dell’infelicità femminile le parole di Alessandra Bocchetti, che sceglie date di inizio e fine del femminismo italiano – 1970 Carla Lonzi “Sputiamo su Hegel” e fine nel giugno 1995 con il documento “La prima parola e l’ultima”. Prima la sensibilità, la coscienza di genere, il passaggio dal femminismo della parità a quello della differenza, le lotte per i diritti civili, oggi la solitudine delle proprie stanze, l’infelice meditazione sui giorni del secolo buio.
Roberta sarebbe stata travolta dalla sua stessa risata nel leggere l’intervista. Femminista certo lo era, ma lo dicevamo noi, le amiche di sempre e quelle di passaggio che la frequentavano, perché lei giocava da sola, quando si occupava di corpi di donne e uomini che fanno sesso a pagamento, quando contribuiva alla ribalta sociale di Carla Corso e Pia Covre, quando più di venti anni fa organizzava sperimentalmente con il comune di Rimini le strade protette per il lavoro di trans e prostitute. Mentre noi giovani e già grandi la guardavamo affascinate e nel tempo stesso a distanza: troppo avanti, troppo oltre, troppo impeto, troppa ammirazione, troppo coraggio. E femminista lo era, chiedo in cuor mio a Bocchetti e Palieri, quando decise di buttarsi a destra, di attaccare i giudici, quando le donne della Casa internazionale delle donne non volevano più ammetterla nei loro spazi ? E allora è di destra o di sinistra il femmismo? Si è femministe fino a che si sta in un gruppo o quando si resta fuori da sole? E oggi noi che ancora ci definiamo tali tracciando cartografie dagli scenari ancora incompiuti dobbiamo indossare il lutto in morte di lei e di noi? E se una di noi si uccide (ammesso che Roberta volesse definirsi una di noi) accendiamo una pira e ci gettiamo sopra con lei?
La penna lieve e sensibile di Alberto parte da Roberta per arrivare a sé, una sua riflessione sulla morte, le amiche care del gruppo del mercoledì che hanno scritto il documento “Il coraggio di finire” parlano di un periodo personale e pubblico, non di una vita. Certo che suona tragicamente vicino a questo suicidio, ma il testo parla anche di “educazione sentimentale” che dalla condivisione taglia e ricompone incessantemente. Io e le altre (le mie compagne di tutto) partiamo da noi e noi è anche la morte di Roberta; personalmente non mi interessa datare il femminismo, lo lascio alle storiche, piuttosto continuo a interrogarli “i” femminismi. E’ tale questa modalità di riunirsi a riflettere, di mischiare il sé alla storia, non spiegarne il senso con un gesto unico. Allora, in questo senso non sono morta.
Ps. Mi ha colpito in tutti gli articoli scritti in questi giorni, che la morte di Roberta non abbia suscitato mai l’idea che potesse soffrire, in qualche modo, “a modo suo”. C’è molta ammirazione tra amiche e amici per come è stata coerente nel portare avanti il suo piano fino in fondo da sola. Io invece mi sono fatta l’idea che qualche buco doloroso, ben nascosto, dovesse pur esserci, perché tanta ostinata solitudine non è mai segno di benessere.