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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Come aiutiamo le donne di Kabul?

28 Aprile 2009
di Letizia Paolozzi

Foto di donne che manifestano a Kabul. Sono arrabbiate. Protestano contro la nuova legge che dovrebbe garantire la subordinazione della moglie al marito, compreso l’obbligo di fare sesso, consenziente o no, con il marito almeno “una volta ogni quattro notti alla settimana“.
Quello che nella foto non si vede sono le donne e gli uomini che lanciano sassi contro le manifestanti: appartengono anche loro alla minoranza sciita (10 % della popolazione afgana). Però difendono la nuova legge adottata in marzo dai parlamentari e non ancora entrata in vigore. Dopo le proteste della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Sarkozy, il presidente Karzai ha chiesto al ministro della Giustizia di valutare se per caso la legge non violi la Costituzione.
Cosa possiamo fare per aiutare le manifestanti di Kabul?
E come possiamo salvare la ragazzina pachistana di diciassette anni fustigata per “comportamento non islamico“ (sarebbe colpevole di “relazione illecita“) da un talebano incappucciato? Alla fustigazione assistevano uomini barbuti. Foto scattate con il cellulare. Video spedito a una televisione pachistana.
Torna il mondo talebano? Un universo senza donne. No alla scuola; no al lavoro; no a mettere piede fuori di casa. Coperte, nascoste, imprigionate per impedire quella seduzione da “ausiliarie del demonio“ capace di condurre alla dannazione eterna uomini misogini, fobici, parossisticamente impauriti dal sesso femminile.
Dall’altra parte del confine con l’Afghanistan, forse è in movimento la “talebanizzazione“ del Pakistan. Nella regione del Nord-Ovest, chiamata una volta, “la Svizzera pachistana“. Adesso, i talebani minacciano la guerra. Per arrestarla, purché depongano le armi, il governo di Islamabad ha accettato la adozione della sharia islamica nella valle di Swat.
In che modo possiamo impedire un simile scambio?
Lascio da parte le brutalità quotidiane sulle donne, il carcere, la condanna per spionaggio di Roxana Saberi, detenuta a Teheran nel carcere di Evin. Ho elencato casi estremi di sistemi patriarcali fondati sul disprezzo del sesso femminile. La discriminazione colpisce, sia pure a diversi livelli, nei paesi musulmani. Ma non solo. In India, in Cina, i feti femminili, la vita delle bambine vale meno di niente.
In Afghanistan, nelle zone di confine pakistane, in molti paesi dell’islam pesa la tradizione tribale e appunto patriarcale. Produce una dissimetria, nella quale ci sono uomini che si fanno garanti della segregazione sessuale femminile fino alle punte più isteriche dei talebani.
E poi c’è la divisione interna alle donne. Le “tradizionaliste“ contro le “moderne“. La manifestazione di Kabul raccontava plasticamente di questa presa di coscienza femminile esacerbata per la propria oppressione e della reazione di chi cerca di difendere le strutture comunitarie tradizionali e una stabilità famigliare terribile.
Perché non ci sono “le donne islamiche“ tutte nell’identica condizione, come sembra credere la scrittrice Ayaan Hirsi Ali quando afferma (sul “Corriere della Sera“ del 26 aprile 2009): “La prima battaglia che le donne musulmane devono combattere non è contro gli uomini che le opprimono, né contro lo Stato: è contro il loro stesso Dio“.
Di questo dobbiamo tenere conto se vogliamo aiutare le manifestanti di Kabul.
Certo, firmare petizioni (www.npwj.org), coinvolgere l’opinione pubblica, manifestare. Vegliare affinché le donne della valle di Swat non vengano sacrificate nello scambio “pace-sharia“. Spingere la diplomazia a non ritrarsi, a non disertare quando si tratta della condizione femminile. Ma dipende da noi che siamo qui, lontane-vicine, saper ascoltare ciò che dicono quelle donne che lottano per la propria liberazione.

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