Domenica 19 aprile, avrebbe dovuto svolgersi una discussione pubblica sul testo elaborato dalle donne del “Gruppo del mercoledì” e intitolato “Il coraggio di finire”. Avrei chiesto sicuramente di prendere la parola. Per dire che cosa?
Per nominare, intanto, la commozione e l’emozione che ho provato di fronte alla scelta di Roberta Tatafiore. Non posso dire di essere stato un suo amico, ma era una donna che suscitava in me una fortissima simpatia e che mi sembrava molto affascinante. La sua persona e il suo modo di scrivere e di ragionare. Il piacere di “passare” i suoi pezzi così ben costruiti che ultimamente avevamo pubblicato su DeA. Lo stimolo a confrontarmi con posizioni anche distanti ma mai infondate.
Non conosco ancora le parole che Roberta ci ha lasciato a commento di una morte scelta. Ma alcuni pensieri si sono messi in moto.
Penso che Roberta desiderasse una discussione pubblica sulla sua vita, che del resto in questi giorni si è aperta su tutti i giornali.
Tra le tante idee, ancora confuse, ne isolo una: che cosa lasciamo in eredità?
A questo evidentemente non si pensa prima di una certa età. Il documento del “Gruppo del mercoledì” mi ha toccato, anche nella crudezza con cui parla direttamente della fine, perché è anche nella mia esperienza di questi anni una presenza maggiore dell’idea e del fatto della fine. Se ne sono andati i miei genitori. Un filosofo ha notato che, dopo che assistiamo alla morte dei genitori, diventa immediatamente chiaro che la prossima volta tocca a noi. Ciò può indurre una certa depressione. Ho pensato che forse ho già fatto tutto quel poco di buono di cui sono stato capace. Una sensazione di malinconia: molte cose in cui ho creduto – la politica, la sinistra, il giornalismo – quasi non esistono più per come le ho conosciute e vissute, molto intensamente. Un senso di fallimento. Il rischio di una morte del desiderio. Il peso, anche, della consapevolezza di una responsabilità specificamente maschile in questa perdita.
Ma alla fine prevale un sentimento vitale, ancorato alla forza e alla intensità delle relazioni che costruiscono la mia vita. Fatte di amore, scambio intellettuale, desideri, sicurezze, e naturalmente conflitti. Non è solo – ed è moltissimo – la ricchezza degli affetti personali. E’ anche – credo – un risultato politico, che per me deriva dalla costanza con cui ho cercato di coltivare alcune relazioni politiche, con donne, e più recentemente anche con uomini che si sono resi conto del fatto che il mondo è definito prima di tutto dall’esistenza di due sessi. Uomini che vanno incontrandosi e riconoscendosi, in una rete che per ora si allarga. E’ una partita complessa, in cui si intrecciano il mio e altri percorsi individuali che attraversano le vicende della sinistra e la nuova idea e pratica della politica che ha inaugurato il femminismo.
Questo è solo un appunto e non sviluppo più di tanto il ragionamento. Ma ciò che mi fa riaccendere il desiderio del “voler ricominciare”, senza inciampare nella retorica fallimentare dei “nuovi inizi” che abrogano il passato, è la convinzione di aver vissuto, nel ’68 e dopo, momenti radicali di mutamento nel modo di vivere e fare mondo che sono stati e restano una cosa buona.
Che continua ad agire. Che vediamo per molti versi informare, pur tra tante difficoltà e tante differenze, anche il modo di pensare e di vivere di molte persone giovani. Dei nostri figli.
E’ la nostra eredità. In parte si trasmette indipendentemente dalle stesse nostre scelte. E’ un meccanismo messo in moto dalle nostre vite. Ma c’è ancora molto lavoro da fare, molto da scoprire, molto da chiarire.
E’ in atto un tentativo di condannare, rimuovere e cancellare brutalmente tutta una storia. Molto di questa storia è già finito, è morto. E bisogna saperlo vedere e nominare. Ma questo tentativo di rimozione violenta mi sembra tutto sommato mosso da una condizione di debolezza. Spesso alla radice di atteggiamenti violenti c’è la debolezza. Possiamo trovare in noi la forza per superare questa debolezza. C’è una eredità che non abbiamo ancora finito di definire.