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Ormoni, successo e carriera

1 Marzo 2009
Pubblicato su "Europa" il 25 - 02 -09
di Franca Fossati

Tutto spiegato: è per via di un ormone che le donne non fanno carriera. L’ossitocina, l’ormone del parto e dell’allattamento comanda sulla vita delle donne, le spinge all’empatia, alla socialità, a scegliere campi e obiettivi molteplici in cui impegnarsi. E quindi le allontana dalla competizione serrata e monodimensionale che richiede il raggiungimento dei vertici in una carriera.
Scrive tutto questo la psicologa canadese Susan Pinker in un libro (Il Paradosso dei sessi) uscito l’anno scorso negli Usa e tradotto in Italia da Einaudi. Repubblica ne dà notizia in prima pagina definendo l’ormone di cui sopra “antifemminista” (21 febbraio).
E perché mai? Non è proprio il femminismo che ha rivendicato il valore della differenza contro le ideologie emancipatorie e paritarie?
In un’intervista che la Pinker rilasciò giusto un anno fa a Paola Mariano de La Stampa, in occasione della pubblicazione del saggio negli Usa, la psicologa diceva: “Nel regno del lavoro le differenze di natura biologica tra i sessi influenzano scelte di carriera, orari e stipendio, fanno sì che ilsuccesso per lei non necessariamente corrisponda al successo per lui”.
Quante volte le donne lo hanno detto che successo e potere non si declinano allo stesso modo per i maschi e per le femmine? Non sappiamo se le ricerche che insistono sulla diversità biologica del cervello femminile siano attendibili, anzi ci sono studiose che le contestano, ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che alla indubitabile competenza e professionalità delle donne raramente corrisponda riconoscimento e attribuzione di responsabilità ai livelli più alti.
Lo vogliamo spiegare solo con l’egoismo maschile?
Certo, la casta degli uomini è chiusa e autoreferenziale, basti guardare a una qualsiasi assemblea di partito, non ultima quella del Pd, con Anna Finocchiaro che cercava di rianimare con la frusta quei delegati delusi, lasciando agli uomini uno stanco ruolo di attori. “Donna d’ordine” l’ha definita Aldo Cazzullo sul Corriere della sera (22 febbraio), anche se, come ha fatto notare con un po’ di perfidia Rossana Rossanda (il manifesto, 24 febbraio), di disordine (di creativo disordine) in quell’assise non ce n’era granchè.
Ma non succede così anche nelle aziende? Che spesso le donne scelgano o accettino ruoli più defilati, di ricomposizione più che di battaglia, di ricostruzione più che di rottura? Che sia frutto di natura o di cultura, forse dovremmo smettere di dare a questo modo di essere un’accezione negativa e vederne invece il valore, il bene collettivo che può rappresentare.

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