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Povia e Paoli, non censurate quelle canzoni

2 Febbraio 2009
di Franca Fossati

Insieme con gli scandali violenti della cronaca ci sono canzoni che fanno scandalo. L’ultima è quella di Gino Paoli sulla bambina, anzi “una donna di undici anni e mezzo”, che “aveva gli occhi come un pettirosso”. La storia in versi dice che “un bambino” di settant’anni “che non sapeva cos’è bello e cos’è brutto” l’afferrò “con cattiveria” ma a sua volta fu afferrato dal male. E così morì tra le braccia della bambina che aveva cercato di violentare. E lei, la bambina, “con le manine gli accarezzò la faccia”.
“E’ un testo equivoco” dichiara subito Alessandra Mussolini (Il Velino.it) , fornisce alibi alla pedofilia, una bambina non può perdonare. E, in quanto Presidente della Commissione Bicamerale per l’infanzia, convoca il cantante per un’audizione. Anche l’arte va controllata dice Mussolini, questo è uno dei compiti dell’istituzione. Anzi, aggiunge, stiamo preparando una legge “contro la pedofilia culturale”. Pedofilia culturale? “Sono matti” , sbotta Luca Sofri sul suo blog (wittgenstein.it), “e poi? Cosa facciamo con Lolita, lo vietiamo?”.
La discussione impazza sulla rete, Gino Paoli cerca di spiegarsi alla trasmissione “Che tempo che fa”: quello della bambina non è perdono, è pietas. Ma non convince Roberta Lerici, responsabile delle politiche per l’infanzia dell’Italia dei valori, che trova “agghiaccianti” le motivazioni del cantante, come agghiacciante è la pedofilia (bambinicoraggiosi.com).
Qui però “entra in gioco la libertà di espressione”, commenta L’Unità (24 gennaio). Eppure non era stata la stessa Unità a sostenere le proteste delle associazioni omosessuali contro la canzone di Povia sul gay diventato etero? Anzi, Roberto Cotroneo aveva scritto che “se alla Rai rinsaviscono all’’improvviso, e se ne accorgono, forse questa farsa grottesca si potrà impedire” (L’Unità, 24 dicembre). Nella canzone, scritta per il Festival di Sanremo, si racconta, come ormai tutti sanno, di un ragazzo gay “guarito” dall’amore di una fanciulla.
Storia vera, pare, che il settimanale Tempi ha ampiamente raccontato per dimostrare che l’omosessualità è una malattia indotta dall’assenza del padre. Logico che Arcigay polemizzi, ma invocare la censura? Siamo proprio convinti che sia così che vanno condotte le battaglie culturali, di destra o di sinistra?
In realtà assistiamo a un inquietante crescere della fiducia nei divieti, nelle censure, nelle circolari, nelle ordinanze come soluzione dei problemi. Si invocano dall’una e dall’altra parte della barricata. Urge pensiero autorevole, meglio se femminile.

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