Anima / Corpo

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La morte libera tra anarchia e diritto

18 Febbraio 2009
di Roberta Tatafiore

A corpo freddo (di Eluana) e a mente raggelata (la mia) mi interrogo sulle ragioni dell’esito paradossale del cosiddetto Caso Englaro : il padre di Eluana è riuscito sì a liberare sua figlia da una vita-non vita (e in questo gli va tutta la mia solidarietà), ma a un prezzo molto alto: avremo la legge peggiore che esista al mondo sulle volontà di fine vita, malgrado la grande mobilitazione di tante teste competenti e intelligenti e dei sempre generosi Radicali per far sì che ciò non avvenga. A meno di clamorosi cambiamenti durante l‘iter accelerato della legge, dopo la legge la libertà di donne e uomini farà un passo indietro altrettanto clamoroso. La vittoria del padre di Eluana per sua figlia, sancita dai tribunali, si rovescerà in una sconfitta per tutti – sancita dal parlamento. Una vittoria di Pirro, politicamente parlando.
Anche in altri paesi, quelli ai quali dovremmo somigliare, è aumentata la presa del potere religioso (segnatamente cattolico) che pretende di azzerare il pluralismo etico, insito in qualsiasi società, e di imporre erga omnes una morale confessionale. Ma da noi la Chiesa si incontra con la maggioranza del ceto politico, tanto di governo quanto di opposizione, e riesce a far sì che la sua visione morale venga sussunta nelle leggi emanate da governo e parlamento.
E’ il trionfo della “religione civile”, lanciata dal duo Ratzinger-Pera anni fa che ha inaugurato un nuovo tipo di statalismo: lo statalismo chiesastico. Di conseguenza, nei suddetti altri paesi, il conflitto inevitabile tra i diversi modi di intendere a chi appartiene la propria vita – dalla nascita alla morte – non è così violento e sgangherato come in Italia. Di conseguenza la competizione manichea tra laicità e confessionalità dello stato ci imbriglia tra schieramenti contrapposti e costringe ciascuno a militare nell’uno o nell’altro campo, azzerando la libertà di pensiero e di critica.
Così, nel Caso Englaro, hanno taciuto quanti – pur dalla parte del padre di Eluana – non hanno apprezzato la via giudiziaria alla sua liberazione. Hanno taciuto quanti non hanno apprezzato il non chiamare con il loro nome, pratiche eutanasiche, gli interventi medici messi in atto per proteggere la morente dall’eventualità di soffrire durante la disidratazione e la denutrizione. “Alla domanda sulla percezione del dolore (in un soggetto in coma vegetativo permanente e irreversibile, ndr) la scienza può rispondere in maniera solo in modo approssimativo”, ha scritto Anna Meldolesi, della cui competenza mi fido, in un articolo su Il Riformista, specificando che: “la letteratura scientifica smentisce comunque che si tratti di atroci sofferenze”.
Come che sia, preferisco il trattamento con sostanze sedanti cui è stata sottoposta Eluana Englaro che potrebbero aver accelerato la sua morte, piuttosto che la mancanza di un tale trattamento, come è accaduto nel caso di Terry Schiavo.

Il fatto è che nelle società in cui viviamo, non ci sono che due modi di morire di propria volontà: ricorrere al suicidio (che, non a caso, in tedesco si chiama Freitod, libera morte) oppure affidarsi alla legge che stabilisce i confini entro i quali uno, alcuni o alcuni altri, possono accelerare la nostra dipartita. La legge ci mette a disposizione il testamento biologico (e chiamiamolo così, per piacere, visto che i parlamentari, tanto di maggioranza quanto di opposizione, hanno cassato la parola testamento perché alluderebbe al fatto che la vita sarebbe “bene disponibile”) in caso diventiamo incoscienti e impossibilitati a decidere, il suicidio assistito e l’eutanasia in caso siamo capaci di decidere.
Ma poiché il morire è cosa spiritualmente e esistenzialmente pregnante, nonché materialmente complicata, se non possiamo o non vogliamo morire di nostra mano, se non possiamo o non vogliamo aspettare che il nostro destino si compia in base alla legge naturale (che di naturale ha ormai ben poco visto che le nuove tecnologie della cura possono prolungare la vita ad libitum) altra scelta non abbiamo che sperare, sperare che pietà umana e perizia medica ci accompagnino nel trapasso in un luogo necessariamente pubblico (una clinica, un ospedale, un hospice) perché regolato da norme pubbliche.
Nella nostra solitudine di morenti saremo comunque creature dolenti e bisognose, aggrappate alla vita e timorose della morte, e – coscienti o non coscienti – delegheremo allo stato la nostra esecuzione. Non è una prospettiva esaltante. Chi, finora, l’ha criticata con le parole più adatte è Clara Jourdan, sul numero 83/2007 di Via Dogana. Esprimendo contrarietà al testamento biologico e all’eutanasia, scrive: “…mettere questo momento delicatissimo della fine della vita in forme necessariamente burocratizzate è preoccupante e deresponsabilizza chi negli ospedali e ai capezzali ha il compito di vegliare sulle creature malate. Meglio lasciare che chi aiuta a morire corra dei rischi, per amore di quel legame”.
Sono d’accordo con Letizia Paolozzi quando, sulla scorta di un intervento di Angelo Panebianco, afferma che c’è una “intrattabilità politica” del tema della fine. Ma sono costretta a ammettere che solo la politica come la conosciamo può incanalare nel modo meno peggiore possibile questo tema, cercando di rispettare la volontà di tutti i morenti, credenti e non credenti, atei o agnostici, stoici o epicurei, senza imporre ad alcuno l’obbligatorietà di questa o quella pratica di fine vita.
L’alternativa cui Letizia accenna di lasciar fare agli umani permettendo loro di acconciasi a organizzare la morte propria e altrui nella “zona grigia” sottratta al controllo statale non è però più realizzabile.
“Prima”, un prima antropologico non ancora compiutamente studiato, lo stato non doveva occuparsi della morte che avveniva esclusivamente nell’ambito delle famiglie, le quali si arrangiavano come potevano, anche mettendo in atto pratiche eutanasiche ante litteram e “sopra la legge” (cfr. il mio articolo “L’eutanasia e l’Accabadora”, pubblicato su Secolo d’Italia, ripreso da questo sito nella sezione anima/corpo”).
E a tutt’oggi si sa, si dice, che la “zona grigia” delle morti anticipate ma concordate tra familiari e medici al capezzale dei morenti sia estesa. Dopo una legge occhiuta sulle volontà di fine vita, però, la “zona grigia”, tenderà inevitabilmente a restringersi. Solo la depenalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia potrebbero sottrarci a quei controlli burocratizzati che diventeranno inevitabili. Il problema è che per depenalizzare occorre comunque legiferare.
C’è un solo paese al mondo, la Svizzera, che già nel 1940, ha legiferato nel senso della depenalizzazione. Il codice penale della Confederazione definisce il suicidio assistito in modo tale che, interpretando la norma “a contrario”, lo consente. La legge, infatti, punisce l’istigazione al suicidio solo se praticata o tentata per “motivi egoistici”. Ciò ha permesso, già da parecchi anni, la presenza di associazioni private (Dignitas e Exit) votate a eseguire le volontà di fine-vita. Il denaro che esse percepiscono va esclusivamente a coprire le spese per il servizio e la polizia lo può accertare perché ogni morte viene denunciata fornendo alle forze dell’ordine un’ampia documentazione.
Recentemente, però, sta aumentando la pressione per regolamentare in qualche modo quello che finora è un rapporto consenziente tra i volontari della morte, se così li vogliamo chiamare, e gli individui liberi di decidere quando e come porre fine ai propri giorni. Da un lato, in alcuni Cantoni, gli ospedali pubblici che ospitano malati terminali decisi a abbreviare le loro sofferenze, hanno aperto le porte alle associazioni per eseguire gli “interventi”. Dall’altro il Consiglio Federale (l’equivalente del governo centrale), sotto la pressione di un’opinione pubblica allarmata dall’aumento della domanda di suicidi assistiti che “fanno notizia”, nel luglio dell’anno scorso, ha espresso in un documento la seguente posizione: nessuna intenzione di modificare la legge del 1940, bensì la proposta di discutere con le associazioni stesse la loro collocazione all’interno del sistema sanitario.
Sia Dignitas che Exit hanno accolto con favore il documento del governo mirando alla possibilità, in un futuro, di ancorare alla costituzione il “diritto alla morte dignitosa”, il che condurrebbe inevitabilmente a far rientrare sotto la protezione statale le pratiche che finora si svolgono in maniera privata. Ritengo, questa, una prospettiva di normalizzazione che non mi piace. Da anarchica impenitente penso, infatti, che dove avanza il diritto la libertà arretra.
Convinzioni personali a parte, mi chiedo come fare, qui e ora nel mio paese, a mettere la sordina a quel “dispiegamento di potenza” (come lo chiama appropriatamente Bia Sarasini) che ha fatto il bello e il cattivo tempo nella politica e sui media intorno alla umana troppo umana vicenda di Eluana Englaro.
Non trovo risposta, ma so che dare una risposta è essenziale.

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