Nata nel 1998, chiusa nel 2008: dopo dieci anni, l’associazione Emily ha preso congedo. Tuttavia la sua fine non ha nulla di triste. Perché è stata festeggiata e le donne che l’hanno tenuta in piedi si sono festeggiate a Napoli dove Emily possiede una forza più grande rispetto ad altre città? Non soltanto.
A togliere la tristezza e il senso di perdita che si annida nella fine (di una relazione, di un progetto e, per estensione, di un gruppo, collettivo, giornale, partito), mi pare sia stato proprio il gesto inusuale di lasciare andare una comune esperienza. Scegliere di concluderla piuttosto che continuare a vivacchiare.
Sempre la storia di una comune esperienza è punteggiata di contraddizioni sospese, decisioni interrotte, pratiche politiche disattese. Per questo si cerca di evitarne l’epilogo. E quando arriva – al momento della fine del Pci – l’evento assume un carattere luttuoso, poco produttivo – come si è visto – di “nuovi inizi”.
La difficoltà a chiudere dipende forse da una troppo grande affezione a ciò che è stato; dipende dall’abitudine, paura del vuoto, devozione nei confronti del potere. Perché “i compagni ce lo chiedono“ o perché “noi dirigenti abbiamo la responsabilità di rispondere ai compagni“.
Quanto alle donne, può accadere certo che un proposito costruito sulla passione politica, sia abbandonato. Per sfiducia, pensando di non riuscire a inventare altro. Una volta sfumata la candidatura di Hillary Clinton, le sue elettrici avevano minacciato di non andare a votare. “Il Partito democratico ci ha prese in giro; almeno, McCain ha puntato su una donna come vice“. Ma le cose sono andate diversamente. Oggi il Segretario di Stato si chiama Hillary Clinton e Obama, nei primi passi da Presidente degli Stati Uniti, sembra intenzionato a ascoltare la parola delle donne.
In effetti, la prima legge di Obama, che aveva al fianco la moglie Michelle, è stata la “Lily Ledberter“ (dal nome della manager Newyear la quale ha scoperto che da venti anni era stata pagata meno dei suoi colleghi maschi) sulla parità salariale.
Vale dunque la pena di raccontare di Emily, del suo dire e dirsi la verità sui successi e sulle delusioni: un parlare franco che è stato capace di nominare e ascoltare anche i fallimenti.
L’associazione – madrine insieme ad altre Franca Chiaromonte e Annamaria Carloni- cresce in condizioni locali spesso complicate e difficili, tessendo l’incontro tra donne del centrosinistra dentro e fuori dai partiti. Voleva scalzare quel monopolio maschile che la fa da padrone nella rappresentanza ma la sua critica si rivelerà debole.
Come si contrasta una democrazia gravemente carente nei confronti del sesso femminile? L’impresa non può riuscire per via “naturale”. Nel 2004, Emily decide un’azione di disobbedienza presentando una lista tutta femminile alle provinciali di Napoli.
Mossa esile, limitata. Eppure, la risolutezza femminile sta anche in queste mosse. I partiti reagiscono offesi. Molte donne all’interno dei partiti criticano l’atto di insubordinazione (l’accusa sarà di sottrarre voti ai Diesse e alla Margherita). Solo che i partiti, soprattutto in Campania, si stanno autodistruggendo tra personalismi, cordate, regolamenti di conti, sistemi di potere sclerotizzati.
Su questa catastrofe, prima di tutto simbolica, che coinvolge la società nel suo complesso, Emily incide poco. Una catastrofe annunciata che nessuno vuole guardare. “La politica a Napoli è più cattiva che a Roma“ affermerà più tardi Rosa Russo Iervolino.
La democristiana che assieme a Giglia Tedesco stilò la legge sul cambio di sesso; assieme a Martinazzoli spazzò via gli inquisiti della Dc; da ministro della Pubblica Istruzione puntò sul ritiro del fumetto Anti-Aids di “Lupo Alberto“, a 73 anni resiste cocciuta al posto di comando. “Non uso il Vinavil per restare attaccata alla poltrona“. Le responsabilità pendono in capo a lei? “Ho le mani pulite“.
Tassisti, intellettuali, albergatori, spazzini, politici di ogni parte e colore, esponenti del Pd, vorrebbero togliere di mezzo quella che è stata la prima donna ministro dell’Interno, la prima donna sindaco di Napoli. Lei non arretra.
Cresciuta a pane e politica, risolutrice di problemi (alla maniera di Harvey Keitel in “Pulp Fiction“), è servita assai al Partito popolare, all’Ulivo, al Partito democratico.
Inanella i discorsi ufficiali con un mix di “sfrantummati“ (incapaci, smidollati) e “ammuìne“. Sempre nei discorsi ufficiali compaiono i tre figli. “Mi sono dannata per essere presente nei dannati orari della politica“. Appena può, corre dai nipoti.
Dopo il rimpasto della Giunta eccola dettare il suo personale decalogo: “Essere puntuali in aula; alzarsi dal proprio posto solo se necessario; dialogare con tutti i consiglieri provinciali; ascoltare gli interventi ai sensi dell’articolo 37; prendere appunti; rispondere a mail fax lettere; nei rapporti con i giornalisti utilizzare l’ufficio stampa“. Di una semplicità spiazzante.
Emily ha appoggiata Rosetta nelle due campagne come primo cittadino. Adesso Annamaria Carloni, moglie del governatore della Campania, Bassolino, spalleggia la sindaca: disapprovazione di chi critica la Iervolino, da chi detesta Bassolino. Comunque, le donne si erano già divise.
Quando Rosy Bindi si era candidata alla segreteria del Pd (nelle primarie del 2007), unica esponente di sesso femminile a competere per la guida di un partito, con l’eccezione del vertice dei Radicali, le emilyne si spaccheranno tra veltroniane e bindiane.
Una associazione che porta scritto nel suo Dna il sostegno alle donne, che ci sta a fare? “Se una fase si è conclusa , meglio decidere di chiudere una cosa che farla morire“ (Chiaromonte).
Così Emily ha deciso di liberare le relazioni che ha prodotto. Perché, quando sono forti, come le radici, è possibile ripiantarle da un’altra parte. Ad esempio, immaginando un luogo trasversale dentro e fuori i partiti, dove sia possibile discutere e pensare alla rappresentanza ma a partire da una pratica politica. Così forse la chiusura di Emily non deve sembrare una storia triste.