Nel 1789 un benedettino, il molto mondano abate Gallais, dialoga con una ritrosa Mimi sulle “virtù” delle donne in politica. Nel linguaggio dell’epoca: “Dell’influenza delle donne nell’ordine civile e politico”: così definisce questa virtù l’opuscolo La Promenade en Province, s.l.,1789.
In piena burrasca prerivoluzionaria – gli Stati Generali sono stati già convocati – l’abate discetta degli “charmes innocentes ou coupables” che hanno “incatenato l’attività dell’uomo, e comunicato un nuovo impulso”. Il genio morbido e fertile di risorse delle donne “ha preso sull’opinione stessa – sospira il benedettino – un ascendente che lo spirito non può concepire quando il cuore è freddo o esausto”. E ha così scatenato giganteschi sommovimenti rivoluzionari, da Giovanna d’Arco a Madame de Maintenon. Si tratta di virtù che, in certi casi, viene da definire, non senza una certa malizia, “piccole”. O virtù da “secondo sesso” (direbbe Simone de Beauvoir) che all’alba della sfera pubblica moderna si soffermano nella mezza luce di un privato senza voce propria.
A distanza di oltre due secoli, e a più di 60 anni dall’epopea di Nilde Iotti e delle altre Costituenti, le carriere politiche femminili stentano ad acquisire una propria voce e una propria fisionomia. E ancora oscillano tra protagonismi da “piccola virtù”, e indurita acquisizione di impersonali competenze. Come tutte le ultime tornate elettorali dimostrano.