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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Una “lente” culturale per riscrivere la cooperazione

1 Dicembre 2008
di monica luongo

Se non fosse per l’autorevolezza della fonte si penserebbe a una banale ovvietà. L’UNFPA (il Fondo delle Nazioni unite per la popolazione) presenta il suo Rapporto annuale sullo stato della popolazione nel mondo – tradotto e curato in italiano da Aidos – ponendo come preliminare a ogni approccio della cooperazione internazionale la lente della cultura; e intendendo di conseguenza che solo un approccio alle culture che si incontrano nel progettare le differenti tipologie di aiuto facilita le strategie in una ottica di genere.
Sembrerebbe una ovvietà dicevamo, una semplice esplicitazione di buon senso, ma così evidentemente non è, se nel rapporto si legge: “Le agenzie internazionali per lo sviluppo che ignorano la cultura – o la considerano un fattore marginale – lo fanno a loro rischio e pericolo: la promozione dei diritti umani esige che si comprendano la complessità fluidità e centralità della cultura, cercando di identificare glia attori che, a livello locale, promuovono il cambiamento e di costruire con loro rapporti strategici”. Prima di addentrarci nel perché di tanta ottusità dopo decenni di strategie occidentali verso i paesi in via di sviluppo (PVS) bisogna lasciare parlare i numeri. Su circa un miliardo di persone più povere del mondo, le donne e le bambine rappresentano i tre quinti; 960 milioni circa non sa leggere e il 70% dei 130 milioni di minori che non frequenta la scuola è di sesso femminile. Quando le bambine crescono, ma neanche tanto, iniziano a fare figli: il numero di quelle che ogni anno muore di parto non è praticamente diminuito dagli anni Ottanta e si attesta intorno ai 536.000, di cui la maggior parte in Africa sub sahariana e nel sud dell’Asia. In Bangladesh un terzo delle donne si sposa nel corso dell’infanzia, nel Ciad il 29%, nella Repubblica Dominicana l’11%; il Population Council giudica che il totale mondiale arrivi a 51milioni di adolescenti. Una donna su cinque nel mondo a subito qualche forma di violenza fisica (in cui rientrano le modificazioni genitali), il 61% dei malati di HIV/AIDS in Africa sub sahariana è donna, nei Caraibi il 43%. In situazioni di conflitto la condizione femminile peggiora (aumentano le violenze, aumenta il carico di lavoro, aumentano gli stupri). Numeri che non migliorano o solo in minima parte, a tredici anni dalla Conferenza mondiale delle donne di Pechino e a metà percorso dal raggiungimento degli Obiettivi del Millennio che considerano cruciale il benessere femminile, la scolarizzazione delle bambine, il miglioramento delle condizioni di salute e sviluppo.
UNFPA ha scelto di porre l’enfasi sull’importanza della “cultural fluency”, ovvero la familiarizzazione con culture specifiche quando si tratta di far funzionare le strategie di cooperazione. Sono gli elementi presenti in ogni cultura che possono migliorare o peggiorare la condizione femminile; la conoscenza e la comprensione di essi è cruciale per individuare le politiche migliore per migliorare empowerment e mainstreaming delle donne. La sensibilità culturale che si sviluppa da questi processi (debitamente introiettati e inseriti come elementi base della progettualità) non si traduce in condivisione di tutte le tradizioni, ma possibilità di mediare – soprattutto con gli uomini – a favore delle donne.
Nel fare progetti di genere occorre infatti raggiungere una mediazione con le comunità di appartenenza, con le autorità locali e tradizionali, con le figure di riferimento. Occorre, nel lavoro di genere, coinvolgere gli uomini per ottenere più attenzione e rispetto per le donne. E’ interessante per esempio l’esperienza di Femnet, il network delle donne africane per lo sviluppo e la comunicazione, che in Kenya ha avviato un progetto contro la violenza alle donne promuovendo in network Men for Gender equality now, convinte che l’obiettivo della sensibilizzazione alla violenza sono gli uomini. Esattamente come sono gli uomini a dover comprendere l’importanza della risoluzione ONU 1325 che considera l’intervento delle donne cruciale nella gestione risolutiva dei conflitti, proponendo di coinvolgerle nella mediazione e nella formazione di personale civile e militare. Anche nel Programma d’azione seguito alla Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo ci si pone come obiettivo coinvolgere gli uomini nella salute riproduttiva e nell’uguaglianza di genere.
Una ovvietà, la considerazione strategica delle culture dei paesi in cui si opera, che non sempre viene colta dai paesi donatori, di cui scontiamo ancora vecchie impostazioni a loro volta frutto di culture coloniali. Oggi il mondo sta cambiando: la povertà inizia a far tremare i continenti sotto i nostri piedi, le new entries della indigenza ci imporranno in pochissimo tempo di rivedere non solo i pilastri sui quali abbiamo pensato con troppa leggerezza di poter riposare, insieme alle nostre politiche di “beneficenza cooperativa”. Un franco approccio culturale e di genere ci potrebbe consentire di imparare anche a sopravvivere meglio in futuro che al momento vede nero all’orizzonte.

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