A pochi giorni dal voto americano le donne ancora non ricompaiono nell’agenda dei due candidati alla presidenza. Dopo l’uscita di scena di Hillary Rodham Clinton – che molto aveva puntato sull’elettorato femminile, passando alcune giornate di campagna elettorale con una infermiera d’ospedale, con una allevatrice di bestiame, con le casalinghe – e ancor prima che Fannie e Freddie buttassero a gambe all’aria l’estate della finanza mondiale. Già l’elettorato femminile non sembrava più appetibile. Forse perché Barack Obama da’ per scontato che i voti di Hillary – donne incluse – vadano automaticamente a lui; forse John McCain pensa che Sara Palin abbia appeal sufficiente per parlare alle madri americane repubblicane e portare a casa un po’ di voti. Non posso dirlo né sono così ingenua da pensare che gli staff dei due candidati siano fatti da donne e uomini poco esperti.
Sta di fatto che il crollo delle economie mondiale sarà una spina nel fianco ancora più grande per le donne che per gli uomini. Proprio quando la catastrofe sembra travolgere tutti è il momento di differenziare, per capire meglio, per non diventare demagogici, per evitare i qualunquismi. Già nel corso dell’estate – dei subprime solo un olezzo – negli Stati Uniti venivano resi noti i dati sull’accresciuta povertà delle sue cittadine, causa principale la perdita del posto di lavoro.
E’ la prima volta dagli anni Sessanta del Novecento – i dati sono del Bureau of Labor Statistics – che gli Usa invertono la tendenza dell’occupazione femminile verso il basso. Le prime avvisaglie si erano approssimate due-tre anni fa ma l’assenza delle donne dal lavoro era stata letta come la scelta volontaria di madri americane che dopo anni di rampantismo avevano deciso di tornare in famiglia a occuparsi dei figli. Ora gli esperti del Congresso dicono che si erano sbagliati e che le donne lasciano il lavoro perché vengono licenziate o pagate troppo poco da giudicare inconveniente una occupazione.
Molte donne ricevono il sussidio governativo di disoccupazione e tornano a studiare, sperando che la loro paga oraria possa passare dagli 8-9 dollari l’ora per fare la guardiana in un garage ai circa 14.84 di un impiego meglio qualificato (erano 15.04 nel 2004). Le donne che cercavano lavoro tra i 25 e i 54 anni erano nel 2000 il 74.9% della popolazione femminile, impieghi numerosi dovuti alla esplosioni del mercato commerciale tecnologico. Otto anni dopo, cioè il giugno scorso, la percentuale era scesa al 72.7%: sembra uno scarto minimo ma in realtà il 2.2% significa circa 4 milioni di donne su un totale guadagnato con molti anni di fatica e ascesa sociale ed economica per ottenere parità di accesso al mondo del lavoro.
Le donne – continuano gli esperti – sono più riluttanti ad accettare questo declino e si danno da fare, per esempio studiando, come detto prima. Ma molto spesso quando perdono il lavoro passano una media di sei mesi a casa con i figli prima di rimettersi a cercare quello nuovo: hanno vergogna di accettare un
impiego peggiore del precedente, preferiscono occuparsi di affari privati o offrire il loro tempo per attività no profit prima di tornare a cercare un’altra occupazione.
Questa è l’America oggi, queste le sue elettrici che il nuovo presidente farebbe bene a non annotare con superficialità, perlomeno mediatica. In guerre, carestie e crolli di borse, la storia insegna che tocca alle donne tirare il carro, guidare silenziose per non portare famiglie e società alla fame. Oggi queste donne hanno voce e chiedono rispetto dei diritti: le single, quelle con figli, le divorziate, le disoccupate, giovani e meno giovani. Non è solo a una donna che tocca il dovere di rappresentarle.