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La guerra vera di Kathryn Bigelow

30 Ottobre 2008
Pubblicato sul Secolo d’Italia del 29 ottobre 2008
di Roberta Tatafiore

“Sono una pacifista che racconta la guerra come chi la ama” ebbe a dire Kathryn Bigelow, la regista di “The Hurt Locker” (letteralmente: “il bauletto ferito”) a Maurizio Carbona di Il Giornale che la intervistava a proposito del suo film in concorso al festival di Venezia. E’ un film spiazzante tanto quanto la succitata dichiarazione dell’autrice e però, a mio avviso, straordinario perché mostra il conflitto armato in maniera inedita. E tuttavia è un film dal destino commerciale incerto.
A Venezia Win Wenders e compagni della giuria lo hanno snobbato. La sala romana dove l’ho visto in questi giorni (la programmazione è iniziata a metà ottobre in tutta Italia) era semivuota. Vero è che le pellicole contemporanee su guerre contemporanee non sono più quei bei filmoni elettrizzanti di una volta che pompavano gli eroi dalla parte dei “nostri”, oppure li demitizzavano a tinte forti, come nel cinema post Vietnam.
Oggi per gustarsi un plot di patria e onore bisogna piegare sui serial della tv: dall’indimenticabile JAG (Avvocati in divisa) all’attuale NCIS (sigla impronunciabile per indicare la polizia che indaga sui corpi speciali della marina e sui marins), entrambi ricchi di episodi bellici post 11 settembre sul fronte del medio e lontano oriente. Altrimenti i botteghini di Londra, New York o Milano hanno incassato poco sia con “Redacted” di Brian De Palma sia con “La valle di Elah” di Paul Haggis, esemplari di tutto rispetto del cinema neo-bellico americano in cui l’eroe viene buttato giù dal piedistallo e mostrato in tutta la sua problematica di uomo, pedina inerme di un conflitto-complotto da denunciare.
Cinema toccante senz’altro, ma un po’ tanto retorico. Niente di tutto questo in “Il bauletto ferito” (che poi sarebbe il contenitore degli effetti personali dei soldati caduti) nel quale la “guerra raccontata come (da) chi la ama” si impone come una storia realistica dal primo all’ultimo minuto. Una sta lì in poltrona e si sente scaraventata in una scena adrenalinica in cui si lotta per la vita disprezzando la morte. Come, appunto, in guerra accade. Amo quasi tutti i film di Kathryn Bigelow e amo in particolare questo suo ultimo film. Mi sento pertanto autorizzata a celebrarlo, malgrado sia un’opera (in Italia sicuramente) non apprezzata dal grande pubblico.
La scena è Bagdad dove operano gli sminatori. Si tratta di unita composte da tre soldati, profumatamente pagati, di cui uno caposquadra con il compito di neutralizzare gli esplosivi messi a posta perché scoppino provocando staggi per uccidere i nemici americani e – se capita – anche i civili irakeni. Il caposquadra opera con semplici pinze ma vestito come un astronauta, chiuso in una tuta pesante come il piombo. Gli altri due stanno con le mitragliatrici puntate su quanto di umano di muova nei dintorni. Ogni squadra viene chiamata sul campo dagli Stati Uniti e opera per 40 giorni. Dopo di che viene rispedita a casa. Poi, se uno vuole ritorna in Irak, altrimenti no.
Sono queste le regole dell’esercito professionale e volontario, il dato di realtà intorno al quale Bigelow muove le fila di una trama ridotta ai minimi termini. C’è un caposquadra matto come una zucca (il sergente James) che litiga in continuazione con i due aiutanti, uno nero e tosto, l’altro bianco e ansioso. Ai quali tocca il compito di garantirgli il massimo della sicurezza possibile. James è uno che quando la vede brutta (metti che trova un ordigno collegato a un’altra ventina che se esplodono fanno una carneficina) si toglie la tuta protettiva e persino i guanti, si toglie anche le cuffiette di collegamento con gli altri due perché “se devo morire, preferisco morire comodo”.
Di sminamento in sminamento scorre il sangue e scorrono fiumi di adrenalina, di sudore sui volti inchiodati nella tensione e di parole urlate. Così, quando non lavorano, l’ansioso va dallo psicologo del battaglione, il tosto si butta sulla branda incazzato, e James va giro nei mercatini a comprare cassette porno. Lì incontra lo scugnizzo del suo cuore: ci scherza, ci parla, lo protegge. Lo ama, insomma. Lui a casa ha un figlio piccolo e una specie di moglie: sono divorziati ma continuano a vivere sotto lo stesso tetto, mentre il tosto è alla ricerca della donna della sua vita e l’ansioso non sa neanche cosa una donna sia.
Non di meno partecipa alle ubriacature da dopolavoro, con corollario di scazzottata come è d’uso tra maschi quando vogliono dirsi di volersi bene. Poi il finale. Succede che James deve aprire il torace di un giovane corpo martoriato per tirar fuori un malloppo di nitroglicerina. Splatter puro. Come la furia di James convinto di aver dovuto violare il cadavere del “suo” scugnizzo. La notte i tre si trasformano in energumeni. Come ossessi battono le casupole dei vicoli bui per estorcere ai loro abitanti chi sia stato a fare del suo scugnizzo, letteralmente, carne da cannone. Ma tornano con le pive nel sacco, e in più presi a borsettate da un’irachena furibonda, vendicatrice dei maschi aggressivi. Ma il ragazzetto sbuca fuori proprio il quarantesimo giorno. James ha una faccia meravigliosa per la gioia. E la spettatrice tira il fiato, anche lei contenta. Quei tre sono meravigliosi. E poi hanno salvato tante vite, come i veri eroi. Ma, a casa, la vita di James è una noia, con la simil-moglie muta e il pargoletto che strilla, e i giorni che passano a vuoto tra supermercati e bevute solitarie. Riparte per l’Irak. Perché la guerra è una droga.
Kathrin Bigelow fa un cinema potente. E’ una che punta al cuore del cinema stesso. Basta ricordare Strange Days, del 1998, con il quale ha scippato ai colleghi uomini (ne ha sposato uno, peraltro, anche se poi ha divorziato), giocando di anticipo, l’evento dell’ingresso nel Terzo Millennio di uomini e donne sfibrati delle umane passioni, quelle buone e quelle cattive. I suoi critici, anche quelli che l’apprezzano, dicono che i suoi film “non nascono dalla cultura di genere”. Tradotto: fa il cinema come lo fanno gli uomini. Una vera sciocchezza. Come se per fare film da donne occorra stare lontane dal rappresentare la violenza, il coraggio e la determinazione maschili per quello che sono.
Semmai, in The Hurt Locker, Bigelow usa un’astuzia in più lasciando nello spettatore, nella spettatrice, una repulsione ambivalente per la guerra. Lei stessa, del resto, sa con cosa ha a che fare. “Il segreto della guerra è che, per quanto produca orrori, può essere interpretata da qualche protagonista anche come un tragitto che porta al bene” (intervista riportata da Stefano Silvestri su Il Manifesto, il quale ha scritto una delle migliori recensioni).
Pessima e supponente, invece, quella del tanto accreditato Paolo Mereghetti, capofila dei critici politicamente corretti di sinistra. Ha affermato che con “The Hart Locker” Bigelow si è appropriata della guerra facendo un film “diretto con professionalità ma senza alcuna distanza critica e mille miglia lontano da quei registi che hanno saputo davvero riflettere su questi temi. Una specie di Rambo a Bagdad, meno fumettistico ma ugualmente schematico”.

Solo che Rambo (peraltro non da disprezzare) fa cassetta. “Il bauletto ferito”, no. Come mai?

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