Sabato scorso ha avuto emorragia mestruale, Eluana Englaro, ribattezzata dal grande Guido Ceronetti “la farfalla imprigionata”. Per qualche ora intorno al suo capezzale si è fatta folla in apprensione: suo padre, naturalmente, l’amico e medico di fiducia, altri medici, le suore, gli infermieri. E, fuori, la folla dei giornalisti. Quindi, chi ne aveva i titoli ufficiali, ha deciso di non intervenire. L’emorragia si è arrestata.
Non si sono però arrestate le dichiarazioni: quella di guerra del vicepresidente dell’Ordine nazionale dei medici che ha rimproverato i curanti per non aver effettuato immediatamente una trasfusione di sangue; quella di pace dell’arcivescovo della diocesi di Milano, Dionigi Tettamanzi, che ha invitato tutti al silenzio in rispetto della paziente e di quanti le vogliono bene.
Mentre scrivo questa rubrica, Eluana continua a vivere in stato vegetativo, nutrita e idratata artificialmente. Ha l’elettroencefalogramma piatto, pertanto non sappiamo se abbia delle percezioni e quali. Non sappiamo quanto possa rendersi conto dell’ambiente che la circonda; sappiamo, però, che non può percepire la propria immagine corporea e che, tanto meno, può prendere atto di essere diventata il simulacro di una lotta senza quartiere per il controllo della morte, qui e ora, nel nostro paese. E’ una lotta violenta, a tratti angosciante, giocata intorno a una serie di domande antiche quanto il mondo: a chi appartiene la nostra vita, l’unico dono che non possiamo rifiutare? Appartiene a ciascuno di noi? alla società? a Dio?
Simulacro, ho detto di Eluana, è non simbolo, stante che simbolo è segno e espressione della realtà-vera, il simulacro mera rappresentazione della medesima. Per i pre-moderni e, in parte, per i moderni, il simulacro era lo specchio del vero creato attraverso la simulazione. Ma da quando la società occidentale è entrata nell’epoca della post-modernità, il simulacro è entrato nel corto circuito della simulazione fine a sé stessa, laddove la rappresentazione del vero coincide con la verità tout court, anzi diventa iper-verità Lo scrisse, citando niente meno che il libro dell’Ecclesiaste, Jean Baudrillard: “il simulacro è comunque e sempre vero”.
Pensate alle foto di Eluana Englaro, che la eternano in una giovinezza ormai fasulla. Eppure quelle foto dicono il vero perché il suo volto, il suo sguardo, il suo modo di abbigliarsi, di ridere, sono stati esattamente quelli che campeggiano sui giornali e sulle televisioni. E adesso fatevi una domanda atroce: se Luana non fosse stata così bella, elegante, spigliata, la sua immagine avrebbe ugualmente imperversato sui media a ricordarci la sua sventura? Probabilmente no. Questo è l’effetto-simulacro.
Lo stesso effetto sembra aver colpito anche la politica. L’attuale governo (come la chiesa cattolica, del resto) non aveva alcuna intenzione di legiferare sul cosiddetto testamento biologico, considerando che quanto garantito dal codice deontologico dell’Ordine dei medici (no all’accanimento terapeutico) fosse più che sufficiente per assicurare a tutti una morte dignitosa. Ma poi entrambi hanno cambiato idea, perché è successo che il padre di Luana Englaro si è rivolto per l’ennesima volta alla magistratura per avere il permesso di interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiali a sua figlia. E, malgrado la guerra aperta dal governo contro i tribunali, quel permesso lo ha ottenuto, seppure manca ancora l’ultimo grado di giudizio, quello delle sezioni riunite della Cassazione, previsto per l’11 novembre e assai presumibilmente in linea con le altre sentenze.
Dal momento in cui il padre di Eluana ha dato voce ancora più forte alla sua decennale battaglia, è partita la corsa. Oramai i tempi sono stretti, strettissimi. Così, pur di impedire che le venga “staccata la spina”, occorre legiferare in tutta fretta senza neanche il tempo di metabolizzare il cambiamento di posizione. Ma poiché lei, pur non gravissima, si trova in condizioni critiche, dietro la giudiziosa professionalità di politici e politiche nello spiegare i principi della legge progettata, dietro le dure parole della chiesa nel ribadire che la vita solo a Dio appartiene, aleggia una sorta di mantra macabro: Eluana muore? non muore? L’effetto simulacro si dispiega così in tutta la sua ambiguità: ci si preoccupa di una vita nel mentre ci si augura una morte. “Non ci resta che sperare che il suo angelo custode la porti subito in cielo”. Lo ha detto un parlamentare del quale, per carità di patria, taccio il nome.
Ma non posso tacere che, se si realizzeranno le intenzioni annunciate, avremo una legge-manifesto, fatta per sancire che “non esiste il diritto alla morte” (sic!). Concretamente, quindi, le volontà sul fine vita, rilasciate firmando l’apposito modulo, conteranno assai poco: solo il medico avrà l’ultima parola nell’applicarle e sarà vietata la sospensione dell’idratazione e nutrizione artificiali. Qualcuno mi dica, per piacere, a cosa serve una legge siffatta. Se volessi controllare attraverso il testamento biologico la mia morte nel momento in cui non fossi più cosciente, per me stessa oppure per non pesare sui chi assiste un’agonia senza fine certa, un siffatto testamento non lo firmerei mai. So benissimo che anche nei paesi in cui le leggi sulle volontà di fine vita sono pensate non per impedire ma per “lasciar fare”, sono anch’esse rigide, burocratiche e non riescono a rassicurare gli umani in panico per la propria agonia, perché possono fallire o creare più problemi di quanti ne vogliono risolvere. Ma non voglio essere presa in giro da una legge ad hoc fatta per impedire la morte artificiale di Eluana tenuta in vita in maniera altrettanto artificiale. Non voglio una legge simulacro.
Mi interrogo però incessantemente su come sia possibile difendermi dall’invadenza sulle decisioni della vita e della morte visto che entrambe sono nelle mie fragili mani, seppur sorrette dal non fragile libero arbitrio. Insomma, credo nella libertà individuale prima di ogni altra libertà. Clara Jourdan, sulla rivista della Libreria delle donne Via Dogana (n.83/2007) mi ha dato uno spunto su cui riflettere. Alla fine di un ragionamento incentrato sul rifiuto di qualsiasi norma sul fine della vita e sul valore della dipendenza dai legami umani anche nel momento della morte, Jourdan scrive: “Meglio lasciare che chi aiuta a morire corra dei rischi, per amore di quel legame”.
Sì, meglio. Ma “correre dei rischi” in una società come la nostra, vieppiù occhiuta quanto più si discute di vita e di morte nel registro del simulacro, scoraggia chiunque, anche quei medici, parenti, amici, pietosi che finora hanno potuto liberare tante persone dalle sofferenze dell’agonia senza paura (o senza troppa paura) di correre rischi. Mi chiedo cosa accadrà, dopo la legge che il governo si appresta a varare, di quello spazio privato di anarchia compassionevole agita all’interno di relazioni e legami informali, rifugio di tante rassicurazioni. Temo che verrà fortemente ridotto. E correremo il rischio di ritrovarci, tutte e tutti, come “farfalle imprigionate”.