Ringrazio Sinistra Democratica per avermi dato l’opportunità e la responsabilità di parlare in questa Assemblea sul tema della democrazia. Se sono qui, è in primo luogo per la relazione politica con Fulvia Bandoli e le femministe del “gruppo del mercoledì”. Per far vivere qui quello che abbiamo scritto nel nostro “Manifesto”, ovvero che “costitutiva della sinistra è la soggettività femminile, assunta come fondante la sua ragione d’essere”.
Un immaginario bloccato di uomini, una critica feconda di donne
Sono parole non molto diverse da quelle di Olympe De Gouges nella Rivoluzione francese, l’evento inaugurale della democrazia moderna. “ L’autorità di ogni istituzione, di ogni individuo – scrive nella Dichiarazione della donna e della cittadina- emana espressamente dalla relazione della Donna e dell’ Uomo”. E’ questa la politica sessuata che noi abbiamo a cuore e pratichiamo. Non vi parlerò quindi di donne e democrazia o di democrazia di genere, tanto meno di quote e di pari opportunità. Questo semmai, costituisce per noi un problema in più, come ha detto Lalla Trupia nell’incontro sul nostro Manifesto (Roma, 21 giugno). Quello di disfare l’uso maschile della rappresentanza di genere. Grazie al quale gli uomini con funzioni dirigenti, della sinistra e non solo, tendono a perpetuare i loro meccanismi di potere. Offrendo ad alcune donne “l’onore grande” ( così lo chiama Carla Lonzi, nel ’70) di partecipare alle loro imprese, in ruoli e responsabilità complementari, se non in posizione seconda. La maggioranza di loro si dimostra tuttora impermeabile, se non ostile, ad assumere come fondante, nella politica come nella vita, la soggettività femminile e le relazioni sessuate.
Questo gioca un ruolo determinante nell’ appannarsi del pensiero politico maschile. Anche nella riflessione critica sulla democrazia. Non solo in Italia, in tutto l’Occidente. Come ha osservato Wendy Brown (Il manifesto 26 marzo) si è creato una sorta di “immaginario bloccato” di accettazione a-critica della democrazia. Dei suoi principi e modelli istituzionali. La critica, quando c’è, riguarda le patologie, le violazioni, più o meno patenti e rilevanti. Dando per implicito che vi è un funzionamento “normale” della democrazia che può e deve essere assunto come riferimento.
Viceversa il femminismo ha sottoposto a critica, teorica e pratica, l’intero lessico della democrazia moderna: rappresentanza e sovranità, legge e diritti, popolo e Stato-nazione, consenso e rappresentazione, voto, maggioranza e decisione, partiti e pluralismo politico. Soprattutto l’individuo/cittadino che della democrazia moderna è il protagonista universale: neutro e disincarnato.
Solo questo esercizio critico può rimettere in circolo, fecondamente, la parola stessa “democrazia” . Senza dare per acquisita “nessuna connessione logica o necessaria tra le varie componenti di quel conglomerato che costituisce la democrazia liberale” (cfr: Hobsbawum La fine dello Stato, Garzanti 2008). E senza accettare la semplificazione di un’alternativa secca tra democrazia e il suo contrario (dittatura, regime, autoritarismo). A partire dalla valutazione dei sistemi di governo. In particolare di questo governo Berlusconi.
Sul governo della destra: se è regime, è democratico
“Regime leggero”, caratterizzato dal venir meno di alcuni caratteri fondativi della democrazia italiana): a-costituzionale, a-fascista. Questa, la diagnosi di Fausto Bertinotti ( seminario di “Alternative per il socialismo, Roma 11 giugno). Per Eugenio Scalfari se non è fascismo,”è un allarmante incipit di dittatura in tutti i settori sensibili della vita democratica” (La repubblica 15 giugno). Più voci a sinistra, denunciano una svolta illiberale e autoritaria. Più che di analisi si tratta di giudizi suscitati dai provvedimenti del governo; sul decreto sulla sicurezza, e soprattutto sull’emendamento “blocca-processi”.
Al di là dei nomi, e del ricorrente richiamo al fascismo, la questione è se siamo a una rottura , ad un mutamento di forma dello Stato democratico italiano. E se la risposta è sì, come ed in cosa è individuata. E’ Berlusconi l’anomalia? Il vulnus antidemocratico sono le leggi “ad personam”, il conflitto di interessi, i suoi processi ed il conseguente conflitto con il potere giudiziario? Come è noto su questo si è concentrata l’attenzione, e la reazione, politica in queste settimane. Ma per l’appunto questo è un dato di continuità dal ’94 ad oggi. Se è vero, come è vero, che per Berlusconi la politica fin dall’ inizio ha come primo scopo la tutela della sua persona, e delle sue imprese. Anche se, diversamente dal ’94, oggi la vittoria del centrodestra configura una tendenza alla stabilità. Non tanto per i numeri, ma per la composizione del Parlamento, dove è del tutto assente la sinistra – dato che il Pd non si definisce tale – e l’ opposizione è solo di “centro”.
Questa stabilità è la causa più probabile della maggiore virulenza, adottata dal Presidente del Consiglio nel conflitto istituzionale. Attaccando il Csm, esercitando pressioni sul Quirinale, definendo tutta la magistratura “metastasi della democrazia”( nel discorso all’assemblea della Confesercenti), Berlusconi sembra voler sfidare tutti i poteri costituzionali. Sembra intenzionato a sottrarre gli atti del governo a qualsiasi regola di controllo. Sembra voler procedere, senza preoccuparsi di bilanciare il potere dell’ esecutivo con altri poteri democratici.
Ma proprio per questo non bastano le definizioni. Non basta la denuncia delle violazioni delle regole. Neppure della Costituzione. Detto altrimenti, non basta la diagnosi di dittatura o regime antidemocratico. Senza sottovalutare questi aspetti, mi chiedo se, senza queste violazioni, il problema sarebbe risolto. Sarebbe sufficiente il ripristino delle regole, il rispetto degli altri poteri costituzionali? Basterebbe per ridare valore alla Costituzione, che le leggi e i decreti non incorressero in violazione formale?
Possiamo insomma esimerci da una valutazione di merito sulla democrazia che “c’è”, per parafrasare un’efficace immagine di Paul Ginsborg (La democrazia che non c’è, Einuadi 2008)? Quella democrazia che prende corpo ed anima nella politica. Del centrodestra e non solo. Ed ha nel governo del premier il suo fulcro. Non solo in Italia. Anzi. C’è da chiedersi se i limiti e difetti della nostra democrazia non siano quelli che la caratterizzano nel mondo globalizzato.
Il problema è l’eccezione Berlusconi , secondo la definizione di Ida Dominijanni (Il manifesto 17 giugno ), con i suoi processi e i suoi interessi di imprenditore? O non è vero, piuttosto, che Berlusconi e la sua maggioranza adottano una precisa idea di democrazia? Quella che chi governa è legittimato dal popolo, e non può essere intralciato, in questo compito, da altri poteri. Ad esempio dai giudici. Ma neppure dall’opposizione del Parlamento. Con esemplare chiarezza Berlusconi ripropone il più classico dei conflitti democratici, quello tra principio di legittimità e principio di legalità. E, conseguentemente, definisce un “regime” quello dei giudici. Dal momento che esercitano un potere non legittimato dal voto, contro chi governa perché è stato votato dalla maggioranza del popolo.
Lodo Alfano tra legittimità popolare e Costituzione
A ben vedere questa concezione della democrazia è alla base del cosiddetto lodo Alfano che sancisce la piena immunità delle quattro principali cariche istituzionali. Tutte ricondotte a questa unica fonte di legittimità. Basti pensare alla prassi, ormai consolidata, di nominare esponenti della maggioranza alla Presidenza delle due Camere. E da ultimo anche alla Presidenza della Repubblica.
Molto si discute sulla costituzionalità del “lodo Alfano”. Non soltanto per il giudizio di incostituzionalità della Corte costituzionale, sul precedente e analogo “lodo Schifani”. O per la sua introduzione con legge ordinaria. Ma proprio sul criterio di immunità per le cariche istituzionali. Soprattutto se riguarda tutti i reati, compresi quelli comuni, in qualsiasi momento commessi, anche prima della nomina. E’ questo il giudizio espresso nel documento sottoscritto da 100 costituzionalisti. Degli articoli richiamati, il più rilevante, sul piano simbolico e concreto, è l’art. 3 sull’uguaglianza dei cittadini e delle cittadine di fronte alla legge. Proprio l’esercizio di una funzione istituzionale non dovrebbe fare eccezione, se non si vuole ripristinare il privilegio pre-moderno di un potere sciolto dal vincolo della legge.
Ma questo esito, sebbene in contrasto con la Costituzione, può apparire del tutto conseguente con una idea e pratica della democrazia, tutta centrata sulla legittimazione popolare. Come ha scritto Giuseppe Di Lello (Il Manifesto 26 giugno ) non si può escludere che la norma sia ritenuta costituzionalmente corretta. Proprio per questo è essenziale il giudizio politico. Entrando nel merito del confronto sulla democrazia. Il problema non è se il lodo Alfano può essere ammesso o non ammesso sul piano formale. Ben più rilevante è il fatto che viene meno la fonte “costituzionale” di legittimità, a tutto vantaggio di quella politica, espressa nel voto. Si attua così una modifica sia di status dell’eletto che del potere di cui è titolare.
Viceversa i giudizi politici si sono divisi tra chi condivide nella sostanza la norma sull’immunità, ma ritiene politicamente opportuno denunciarne la strumentalità, essendo adottata a beneficio del premier – una proposta “inelegante” l’ha definita Anna Finocchiaro – e chi si affida ai costituzionalisti, come se la valutazione giuridico-formale fosse del tutto esaustiva di quella politica.
Provo a chiarire questo punto, prendendo a riferimento un contesto diverso da quello italiano. In questi giorni la Corte suprema degli Usa ha pronunciato una sentenza molto importante. Destinata a far discutere a lungo sul rapporto tra validità formale e giudizio di merito, riguardo ai principi costituzionali: A proposito del possesso e dell’uso di armi, da parte dei civili, la Corte lo ha definito un diritto costituzionalmente garantito. Estendendo così la legittima difesa. Ed anche la garanzia della sicurezza. Che non è più un diritto che spetta allo Stato assicurare. Può essere esercitato direttamente dal privato cittadino. E’ condivisibile l’esercizio di un diritto, esteso all’uso delle armi, al farsi giustizia da sé? Non cambia forse l’idea stessa di cittadinanza democratica? Perfino il patto tra Stato e cittadini/e, tradizionalmente basato sul monopolio dell’uso della forza da parte del primo? E , soprattutto, questa sentenza può essere valutata, solo mettendo in discussione la sua coerenza formale con la Costituzione? Oppure va discussa, a partire dalla concezione della democrazia e dei diritti che comunica? Interrogando, a partire da qui, la stessa Costituzione. Se e come risponde alla nostra domanda di senso.
Paura e sicurezza: la spirale tra politica e società
Tornando all’Italia. La destra italiana è per sua natura impermeabile a governare “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. A causa della formazione post o extra costituzionale delle forze politiche che la compongono, da An, alla Lega a Forza Italia. Per questa destra il vincolo di legalità contrasta con l’investitura democratica ricevuta dal popolo. E’ dunque in questione la Costituzione stessa, la quale, per l’appunto, sottopone governo e sovranità popolare, eletti ed elettori alla legge costituzionale.
Non è forse vero che sull’idea, cruciale, della democrazia come governo della maggioranza – la “dittatura della maggioranza” secondo la definizione di Tocqueville – si è avuta in questi anni un’ampia condivisione? Sia tra le forze politiche, che nella società? Se si condivide l’idea che il rapporto diretto tra voto, maggioranza e governo è il succo della democrazia, come si può contrastare efficacemente l’uso, e l’abuso, che Berlusconi ne fa? Anche nel conflitto con i giudici, e con gli altri poteri istituzionali?
Non va dimenticato, inoltre, che Berlusconi è processato come imprenditore per reati che fanno parte di un’ illegalità diffusa. Ed è presumibile che per una larga parte di cittadini/e funzioni lo scambio, proposto: a me l’ immunità, a voi la sicurezza.
E tuttavia, lo ripeto, il conflitto tra legittimità e legalità, tra sovranità popolare e Stato di diritto non è una specificità italiana. Ipnotizzati da Berlusconi, e dall’ antiberlusconismo, rischiamo di non comprendere come questa destra, oggetto di diffidenza e imbarazzo per le “normali”democrazie europee, non sia affatto così atipica. Basti pensare alle recenti decisioni del Parlamento europeo in materia di inasprimento delle norme sull’ espulsione dei clandestini o di prolungamento dell’orario di lavoro. Per alcuni aspetti, ha osservato Bianca Pomeranzi al recente seminario promosso dal nostro gruppo femminista, le recenti politiche adottate dal governo possono perfino considerarsi un laboratorio di un più generale cambiamento di tendenza.
E’ una destra che reagisce alle difficoltà del liberismo nel governo della globalizzazione. Difficoltà che aprono un interrogativo di fondo sulla possibilità effettiva di governare i processi globali, in modo razionale, coerente, unidirezionale. E con un grado di consenso accettabile, per quanto ridotto. Più che un’alternativa credibile ed operante al liberismo, al momento sembra prevalere un ricorso spregiudicato, quanto schizofrenico, ad opzioni diverse. Che vengono assemblate attorno ad un nucleo, quello della paura e della domanda di sicurezza che ne scaturisce.
Mi ha colpito come si siano intrecciati, in rapida successione, atti politici, del governo o di amministrazioni locali, con azioni di cittadini.
Dopo l’uccisione a Verona di un giovane, da parte di un gruppo di estrema destra, Gianfranco Fini, neo presidente della Camera, definisce più grave la violenza “ideologica” della contestazione di Israele, quale paese ospite alla Fiera del libro di Torino.
A Roma la protesta degli abitanti di un quartiere provoca una retata della polizia contro prostitute trans, il Tg1 manda in video le immagini violente, con interviste solo a cittadini intolleranti e omofobici.
A Mestre la Lega organizza una protesta contro la costruzione di un quartiere per la comunità sinti, il sindaco Pd Cacciari difende il progetto e la comunità. Contestualmente applaude all’ impiego dell’esercito per presidiare il territorio, e fa approvare un’ordinanza contro gli ambulanti.
A Ponticelli, dopo la notizia sul tentato rapimento di una bambina da parte di una rom, la popolazione assalta il campo e dà fuoco. Il governo risponde ordinando la schedatura dei rom, italiani e stranieri, compresi i bambini. Numerosi sindaci, di destra e di sinistra, organizzano retate e smantellamento dei campi.
A Roma vengono aboliti i “menù etnici” nelle mense scolastiche; A Firenze, a Milano, vengono tolti i posti negli asili-nido e nelle scuole materne per i bambini stranieri.
Nel decreto sicurezza – lo stesso della norma blocca-processi – la condizione di clandestino è un aggravante per i reati, vengono prolungati i periodi di reclusione nei Cpt, rese tassative le espulsioni. Nel successivo disegno di legge sulla sicurezza la clandestinità diviene un reato.
Nel frattempo sui giornali e in tv si discute di “insicurezza percepita”, per significare che quello che conta non è l’effettiva pericolosità, o i reali crimini che provocano rischio o danno ai cittadini e alle cittadine. Ma la loro paura. Non importa da chi e da cosa suscitata. Se e come indotta dallo stesso allarme sicurezza. La paura percepita è il problema politico a cui dare risposta. La sicurezza è il primo diritto da garantire. Contro chi e con quali mezzi è la risposta sulla quale convergono politici, media ed attori sociali: dallo straniero/diverso,con la forza armata e la legge penale.
In un movimento a spirale, dall’alto e dal basso, ad opera delle istituzioni e della società, si è venuta delineando la fisionomia di un paese attivamente razzista. Intendendo con questo termine l’ostilità verso l’altro: “diverso” , “irregolare”, “straniero” per costumi, lingua, religione. Comunque identificato come minaccia, il nemico potenziale se non dichiarato.
Si è costruito il problema sicurezza come nocciolo, ineludibile, della politica. Da assumere e condividere, se non si vuole perdere contatto con la realtà, con i bisogni “veri” dei cittadini e delle cittadine.
Nel mondo globale del nuovo millennio fa davvero impressione questo feed-back alle origini del Leviatano. E’ in forza della paura che viene stretto il patto tra gli egoismi e le passioni individuali, che viene legittimato il potere, che viene a cementarsi la comunità immaginata, attorno all’illusione di eliminare il rischio, espellendo il nemico.
Un voto, una delega, un leader
Il voto del 13 e 14 aprile chiude a destra la transizione italiana. Ma è di destra, di centro, di sinistra il senso comune democratico che ha dominato la campagna elettorale.
Un voto, una delega, un leader. Se non convince al prossimo giro si cambia.
La semplificazione del sistema politico e della rappresentanza è stata generalmente salutata come un risultato positivo del voto. In questa semplificazione si è definitivamente dissolta la forte e diffusa critica degli anni ’70 alle forme della politica. A partire dalla forma partito e da quella della rappresentanza. Critica della democrazia “reale”, come dell’ideale democratico, volta ad allargare il coinvolgimento nella politica, nel segno della differenza. Ad affidarne la responsabilità e la pratica ai soggetti piuttosto che alle organizzazioni. Ovvero ai loro gruppi dirigenti.
Norberto Bobbio parlò allora di “potere ascendente” (Il futuro della democrazia, Torino1984). Che infranse l’impermeabilità del sistema istituzionale. Comprimere il decennio sotto il marchio del terrorismo, consegnarlo al “buio della Repubblica”, vuol dire azzerare la più importante stagione di riforme, istituzionali e sociali, che l’Italia abbia avuto. Certo la critica produsse anche crisi. Rese più fragili le identità politiche collettive. Ma come ogni crisi fu feconda. Almeno finché vi fu scambio e conflitto tra i due processi, quello della critica e quello della crisi. Poi, nella transizione del dopo ’89 si è aperta la forbice. E la direzione presa dalla crisi è andata sempre più divaricando. Dall’affermarsi del paradigma di governabilità negli anni ’80 è approdata alla semplificazione del bipartitismo e al premierato di fatto.
Lo slogan coniato da Walter Veltroni del “voto utile” sintetizza bene questa parabola. Si vota per il governo, ed il governo è personificato dal leader.
Ogni leader è tentato dal populismo. Anche a sinistra! Ed ogni popolo, o parte di popolo, è spinto ad affidarsi ad un leader. Non dicono questo, le primarie sul segretario che sono state l’atto costitutivo del Partito democratico? Quando non si affida, il popolo si rivolta. Ed emerge l’antipolitica.
Si è comunque spezzata la relazione politica costitutiva della rappresentanza. Tutt’altra cosa da una mera delega. Era intessuta di riconoscimento reciproco, anche nella distinzione, perfino nel conflitto. Di condivisione di esperienze, di costruzione di un punto di vista, di definizione di obiettivi. Che davano forma ad un mandato. Stabilivano una connessione tra rappresentanza e rappresentazione. Se questo è andato perso, come si è rimodellato il rapporto tra soggetti politici e democrazia rappresentativa?
Nel corso della transizione italiana si è proceduto a colpi di leggi elettorali. Si sono fatti e disfatti partiti e coalizioni per vincere le elezioni, subordinando la politica all’imperativo della regola elettorale. Fino all’esito attuale. Si è infatti utilizzata la legge Calderoli, fatta per costringere i partiti a coalizzarsi, contro questo stesso scopo. Vietato coalizzarsi, è viceversa obbligatorio fondersi in solo partito, aggrupparsi in una sola lista. Con le dovute eccezioni, imposte dai calcoli elettorali.
Cambiare questa legge elettorale, è un’ evidente necessità, per chi voglia invertire l’attuale tendenza alla semplificazione. Ma se è importante cambiare la legge, è ancora più importante rovesciare il rapporto tra sistema elettorale e politica. Non si ottiene una buona legge, senza una buona politica. E quest’ultima non la si produce, se non ricreando una tensione tra politica e democrazia. Non considerando la democrazia esaustiva della politica. Praticandola invece come spazio aperto per una politica che la eccede, nelle forme come nella sostanza.
Consideriamo, ancora una volta, cosa è avvenuto in questi mesi. Ho descritto prima come si è determinato un fare società, dall’alto e dal basso, sulla sicurezza. Ma vi è stato anche un diverso fare società che ha dato forma ad una politica di opposizione. Non nel Parlamento, e non avvalendosi della rappresentanza dei partiti. Mi riferisco alle manifestazioni a Roma sul decreto sicurezza, da quella dei rom a quella dei movimenti e dei centri sociali. Ma anche ai Gay Pride organizzati in più città dal movimento glbqt. O a quella a Bologna delle femministe e lesbiche. O alla manifestazione di Caiano contro il decreto sull’emergenza rifiuti. Non sono solo fenomeni di “piazza”, reazioni spontanee e, come tali, episodiche. Sono tutti, in modo diverso, eventi prodotti da soggettività politiche. Una risposta alla pretesa di cancellare il conflitto, di sequestrare l’opposizione da parte dei partiti presenti in Parlamento. Soprattutto sono una risposta alla paura. A quella suscitata dalla politica, come a quella che pervade le vite materiali, le risucchia, allontanando dalla politica. Nella loro diversità rappresentano quell’eccedenza, sopra nominata, della politica rispetto al sistema democratico, alle sue regole e alle sua sedi. In quanto eccedenza sono già altro rispetto alla crisi della rappresentanza, della legalità costituzionale. Altro rispetto alla semplificazione prima descritta. Che pure costituisce il senso comune, e vede la destra vincente. Tuttavia questo senso comune ed il governo che esprime hanno già suscitato il manifestarsi di una differente, composita, soggettività politica. Quanto durevole o feconda, è tutto da vedere.
Un viaggio nei limiti e difetti della democrazia
Potrebbe partire da qui, dalla ricognizione dal duplice movimento che ho provato a descrivere, un viaggio di inchiesta sulla democrazia. Come il viaggio in America di Tocqueville non dovrebbe servire a rigenerarsi, grazie all’immersione nel sociale, ma a dotarsi di una aggiornata teoria sulla democrazia. Della quale c’è urgente bisogno. Se è vero, come credo, quello che afferma Hobsbawn. Mai come ora il discorso politico sulla democrazia è stato retorico. Mai come ora che è assunta come dogma sacro, la democrazia mostra i suoi limiti ed i suoi difetti. Se dunque la parola ha perso contatto con la realtà, bisogna ripartire dalla ricognizione dei limiti e difetti che ne costituiscono il rimosso.
Il più vistoso dei quali è quello quantitativo. La vocazione maggioritaria che dovrebbe dare sostanza al rapporto diretto governo-elettori – un potere esercitato in nome e per il popolo- è smentita dal numero sempre più basso di cittadini e cittadine che partecipano alle elezioni. Le maggioranze sono in realtà minoranze sempre più ristrette. Segno di una diffusa disaffezione che svuota il principio di sovranità. In una società dominata dal consumo, divenuta una gigantesca amministrazione di interessi, bisogni e aspirazioni privati, parole come “diritti”, “partecipazione”, “consenso”, “scelta” cambiano di significato. O lo perdono. Tra la sovranità del cittadino e quella del consumatore, non sembra esserci alcuna differenza. Ma questo, osserva Hobsbawn, costituisce un problema. Poiché è il mercato, l’adozione delle sue regole e dei suoi linguaggi a conformare la democrazia. Non il contrario. E, comunque, se pochi vogliono partecipare al mercato politico, siamo di fronte ad “un’evidentissima secessione dei cittadini dalla sfera politica” (Hobsbawn, cit.).
Non meno rilevanti sono i limiti qualitativi. Quello meno nominato è, viceversa, il più importante. Parlo dell’universalismo, della pretesa maschile di neutralizzare la differenza, per rappresentare l’umanità tutta. Di costituire un ordine simbolico e sociale sull’autorità di una parte. La crisi del maschile si irradia ormai su tutta la politica. E’ crisi delle forme, a partire da quella della soggettività, come del funzionamento oggettivo del sistema democratico. Ma questa crisi si fa sentire con più forza nella sinistra. Perché qui ha inciso più in profondità la critica femminista. Sono i nostri compagni di vita e di esperienza politica, sono le nostre organizzazioni ed identità ad essere state investite. E perché la sinistra si è maggiormente identificata con l’ideale universale.
Un secondo limite divenuto patente è quello della delega. Un’aporia irrisolta che è all’origine della separazione tra istituzioni e società. Resa più aspra dalla crescente autoreferenzialità del sistema politico-istituzionale. Mentre il voto e il consenso sono ridotti a rito, modellato sulla spettacolarizzazione, la competizione e selezione delle élites è sempre meno “democratica” e sempre più “privatizzata”, appannaggio di ristretti gruppi, se non di individui potenti. In tempi di governance le oligarchie sono sempre più costituite da un mix di tecnocrazia, burocrazia, aristocrazia. Una realtà affatto differente da quella degli eletti.
Ancora. La democrazia si trova a coesistere con poteri ed apparati che hanno un’incidenza , pari o superiore, sulla vita di uomini e donne, poiché compiono le scelte davvero dirimenti. Da quelle sull’ambiente, a quelle sulla genetica. tuttavia questi poteri ed apparati non possono sostituirsi del tutto al potere politico. Perché non possono fare a meno di una qualche forma e grado di consenso. Questo fa sì che autoritarismo e democrazia si presentano sempre più intrecciati, invece che come sistemi alternativi.
Nella globalizzazione tutti gli elementi costitutivi delle democrazie moderne si scollano tra loro. Vale per il rapporto tra capitalismo e democrazia, che sono stati ritenuti per due secoli una coppia indissolubile. Una sorta di fratelli siamesi, dice Hobsbawn. Il primo dei due sta minando l’altro, dal momento che è riuscito a staccarsi. Facendo ad esempio saltare i nessi tra benessere e sviluppo produttivo, tra qualità della vita e crescita.
Riflessioni analoghe possono farsi per la coppia democrazia e Stato-nazione. Basti pensare allo stravolgimento dei confini territoriali che stabilivano la connessione tra una dimensione e l’altra. Se per un verso vengono meno le frontiere tra esterno ed interno, per altro verso si innalzano muri all’interno del territorio su cui agisce il sistema democratico. La cittadinanza non è più inclusiva, non comprende l’insieme di chi vive e opera in uno stesso spazio fisico e politico, ma viceversa esclude e discrimina Detto altrimenti oggi la cittadinanza è più simile ad uno status, che assegna privilegi.
Inoltre non è più chiaro in cosa consista l’integrità territoriale, uno dei fondamenti dello Stato di diritto, oltre che del potere politico. Dal momento che non solo il mercato, ma altri sistemi giuridici concorrono al governo. Da quelli europei, alla miriade di sedi decisionali che compongono la sfera internazionale. Non stupisce che in questo scenario si riattivano i conflitti di identità, la produzione di comunità immaginarie.
Suscita però perplessità che a sinistra si pensi di affrontarli , aggiornando il catalogo dei diritti universali. Ad esempio affiancando, con pari dignità, diritti sociali e diritti civili. Al di là dell’artificiosità di questa giustapposizione, non si fanno i conti con la frantumazione insita nella logica dei diritti. Perché ogni diritto attiva un’ identità, comporta una priorità nelle strategie politiche di riconoscimento e nelle pratiche. Entra tendenzialmente in concorrenza con altri diritti, apre una competizione, se non un contrasto, tra identità e gruppi sociali. Per non parlare dell’imperialismo dei diritti, della pretesa occidentale di imporre con le armi il loro valore universale. Anche qui c’è da registrare uno scollamento tra democrazia e diritti, dal momento che questi ultimi non vanno in sintonia con il governo della maggioranza. Piuttosto richiederebbero un accordo tra riconoscimento della differenza, apertura della sfera pubblica alla pluralità dei soggetti, nuove forme di convivenza, di condivisione delle scelte.
Per ultimo merita accennare alla modificazione più vistosa e maggiormente analizzata, quella prodotta della democrazia telematica ed informatica. Anche qui c’è da correggere l’ottica italiana, troppo centrata sulla proprietà di Berlusconi, sul regime di duopolio, più in generale sull’assenza di trasparenza e concorrenza nel mercato. Meno si riflette sul fatto che la democrazia è costruzione di senso. E’ rappresentazione, prima ancora che rappresentanza. Detto semplicemente, cosa ho in testa quando voto? O quando scelgo di non farlo? Dove e come si forma il mio orientamento, il mio giudizio, la mia attenzione?
E’ tuttavia sbagliato dedurne – come è consuetudine fare – che conta solo la tv, con relativo corredo della stampa scritta. Già è diverso lo spazio informatico, con la diffusione crescente di siti e blog. Ma non intendo addentrarmi in questo campo. Non potrei dire che ovvietà. Voglio piuttosto sottolineare che è ormai impossibile ignorare la rilevanza del cambiamento simbolico, per troppo tempo ritenuto un’eccentricità, astrusa da capire, del femminismo. E voglio ricordare come le pratiche femministe sono lì a dimostrare che questo comporta in primo luogo la creazione di propri linguaggi, di proprie modalità di comunicazione. Senza di questo, anche l’accesso ai media più influenti non può risultare davvero efficace. Non consentirà cioè di misurarsi con questa innovazione, davvero decisiva, della democrazia.
In una realtà democratica come quella attuale, la destra è non da oggi egemone. Ma non fa ordine. Non c’è pacificazione, né stabilità. Il tumulto che c’è è però difficile da interpretare. Ancor più difficile è ricondurlo ad unità, ad un ordine di senso comune. Tutte le categorie, tutti gli schemi interpretativi sono messi a dura prova. Specie a sinistra. Non può più essere elusa l’esigenza per la sinistra di ricostruire un suo laboratorio di pensiero. A partire dai contesti materiali, dai soggetti che lì agiscono, dalle idee e dalle pratiche che stanno già modificando la realtà
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E’ divenuto abituale parlare di ritorno al territorio, di radicamento nel sociale. E’ un’esigenza che condivido. Ma diffido sempre delle formule. Se ritorno al territorio significa immersione in quello che c’è, non credo sia sufficiente. L’urgenza più forte che io avverto è di pensare la politica. Solo così la politica non rispecchia l’esistente, non si modella sull’ordine costituito. Solo se parla un’altra lingua, la politica può costruire società, in modi affatto differenti. Per questo ho fatto mia la metafora del viaggio di Tocqueville.
Un viaggio da affrontare con la consapevolezza che oggi non vi è nulla di incoraggiante nella democrazia. E che questo pone un’ipoteca pesante sulle sorti del pianeta, sul futuro della globalizzazione. Ma non vi sono scorciatoie organizzative, o movimentiste. Dobbiamo partire dall’analisi impietosa ed esigente della democrazia che c’è. Per farne la trama di una politica differente.