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Procreare nel terzo millennio

16 Maggio 2008
di Franca Fossati

Ogni minuto nel mondo una donna muore di parto. Ce lo ha ricordato Emanuela Zuccalà su Io donna. In occasione dell’11 maggio, festa della mamma. Solo nel 2005, su 171 paesi, 536 mila donne sono morte dando alla luce i loro figli. La maggior parte vivevano in India, Nigeria, Congo, Afghanistan. (Sarebbe stato bello se il Papa, durante il suo incontro con il Movimento per la vita, si fosse ricordato di queste sorelle lontane).
Sull’Espresso si spiega invece perché qui, a casa nostra, in Calabria, Puglia, Campania e Sicilia muoiono più neonati che al Nord. Pare che la colpa non possa ricadere sulla malasanità pubblica, ma piuttosto sulla privatizzazione dei parti e sulla epidemia dei cesarei. La mortalità riguarda soprattutto i parti prematuri che necessitano di reparti specializzati di cui gran parte delle strutture private non dispongono.
Su Panorama leggiamo dell’iniziativa dell’avvocato americano Ron Stoddart, che si è specializzato in adozioni di embrioni. Il suo progetto si chiama Snowflakes, fiocchi di neve, immagine poetica degli embrioni congelati di coppie che li hanno prodotti nei successivi tentativi di procreazione assistita. La peculiarità del programma sta nel fatto che sono le coppie donatrici a decidere, sulla base di un vasto campionario, quale sia la coppia che ha diritto di adottare. Più o meno come la citatissima Juno del film. Per le famiglie adottive la spesa è di 8 mila dollari, inferiore al costo dell’inseminazione artificiale. Il successo non è garantito: solo la metà degli embrioni sopravvivono allo scongelamento. (Potremmo dire che si tratta di una forma particolare di fecondazione eterologa).
Il fatto è che siamo sommersi da una marea di immagini contraddittorie legate alla procreazione e alla condizione femminile. Sul Paesedelle donne on line , ad esempio, Cristina Karadole e Anna Pramstrahler riflettono sulla campagna contro la violenza sulle donne promossa da Donna Moderna. Campagna che si è servita di immagini discusse e discutibili, una sorta di “vetrina degli orrori”, che identificano la donna esclusivamente come vittima. Per questo se ne è subito dissociata la Casa delle donne maltrattate di Milano. Le operatrici di questo centro hanno spiegato che “ una donna che è uscita dalla violenza è una donna libera, non una reduce che deve mostrare le ferite per avere attenzione ed essere aiutata”. Ma le autrici dell’articolo riconoscono che la campagna, collegata al progetto dell’Associazione Pangea, raccoglie utilissimi fondi a favore di associazioni femminili, cooperative e centri antiviolenza. Come a dire che non tutto il male “simbolico” viene per nuocere.

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