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Il male americano, l’amore arabo

4 Aprile 2008
di Alberto Leiss

Il cinema ci ha appena offerto due figure che mi sembrano indimenticabili: l’angelo sterminatore riprodotto dai fratelli Coen dal romanzo di Cormac McCarthy, nell’omonimo film “Non è un paese per vecchi”, e la irresistibile seducente e seduttiva barista che ospita la banda della polizia di Alessandria sperduta in Israele. Un altro angelo, in modo del tutto evidente.
C’è sempre di mezzo la cultura ebraica. E “La banda” è davvero – come molti hanno scritto – un film delizioso e toccante fatto da un giovane regista israeliano, Eran Kolirin, che mette in scena una incredibile nostalgia, piena di affetto, per i protagonisti arabi della sua opera.
Direi che in modo paradossale, ma non tanto, queste immagini ci parlano di un male irredimibile che sembra vincere in America, e di una possibile speranza di amore che fiorisce nell’epicentro dell’odio, in una triste cittadina di moderno cemento sperduta nel deserto di Israele.
Se nel texas violento dei fratelli Coen e di McCarthy lo sceriffo buono non ha altra alternativa che la resa, e il rifugio in campagna nello sguardo azzurro di una moglie dolce e severa, l’universo maschile rappresentato nelle azzurre uniformi dei poliziotti-musicisti musulmani trova invece un’occasione redentrice nell’incontro con Dina (una affascinante Ronit Elkabetz).
E’ sempre e soprattutto un dramma maschile quello che viene messo in scena – ormai ossessivamente.
Penso al volto intenso di padre disperato di Tommy Lee Jones nella “Valle di Elah”, lo stesso volto dello sceriffo sconfitto dei fratelli Coen. Anche il protagonista della banda, il direttore, un colonnello che viene comumente e ironicamente chiamato “generale”, si scoprirà a metà del film, in una delle scene più intense, come un padre tragicamente fallito. Racconta infatti che sua moglie è morta, e poi, addolcito dal corteggiamento insistente di Dina, confesserà che la morte della moglie è colpa sua. E’ seguita infatti al suicidio del loro unico figlio: un ragazzo fragile e sensibile che non ha retto il rigore e l’incomprensione paterna.
Il generale-direttore della banda non cederà al corteggiamento dell’angelo-Dina, ma contagiato dalla sua offerta di amore, ritroverà un figlio nel più giovane dei suoi musicisti-poliziotti.
Il tutto è reso in modo delicato e struggente, anche perché la grande mediatrice di queste relazioni che casualmente e improvvisamente si arricchiscono e si misurano è la musica. La musica americana, la musica araba, la musica israeliana.
Il giovane-bello e un po’ scapestrato della banda infatti corteggia le ragazze mormorando “My funny valentine” e citando Chet Baker. Dina fa la sua dichiarazione al generale-direttore dedicandogli una canzone d’amore israeliana. Il film si chiude con un canto arabo appassionato del direttore della banda – che finalmente ha raggiunto la sua meta per il concerto, un centro culturale in un’altra località israeliana – accompagnato con il violino dal giovane-bello. Il quale suona bene due strumenti: la tromba per evocare il iazz di Chet Baker, il violino per i melismi strazianti delle melodie arabe.
E’ chiaro che ognuno di noi – specialmente noi uomini – dovrebbe saper fare almeno questo per costruire un mondo migliore.

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