Riassumo: con questa legge elettorale (il Porcellum) le liste sono bloccate, gli elettori non possono esprimere le loro preferenze, le segreterie dei partiti, le correnti, le cordate, gli apparati nominano i loro eligendi/e e ne decidono l’ordine di presentazione.
Così facendo, si assicurano la fedeltà di molti/e. Dunque, grazie all’ordine di presentazione i candidati godono di una sorta di sine cura: possono andare a Quiberon per una curetta dimagrante e tornare just in time per venire eletti/e.
La separazione netta tra elettori e eletti finisce per esaltare l’antipolitica e condannare, al di là delle sue reali capacità, quella che viene chiamata cumulativamente, la “casta“. L’incapacità a emendarsi nei guadagni, cioè negli stipendi da parlamentari è un motivo forte di quella separazione. Anche perché nei partiti personali esaltati dalla legge elettorale contano poco esperienza, professionalità, capacità creativa, spirito autonomo, libertà di giudizio.
Sono sfilati portaborse, collaboratori dei ministeri e segretarie; ragazzi e ragazze spesso espressione di un giovanilismo vacuo e di “inesperienza“ rosa, vantata come un merito. Le radici territoriali non contano nulla. La Sinistra Arcobaleno ha paracadutato il napoletano Francesco Caruso nel Veneto; il portavoce del governo Prodi, Silvio Sircana, è stato collocato dal Pd nella disperata Campania.
Il rinnovamento politico della sinistra, magari a colpi di statalismo come nel caso Alitalia, si è attestato sulla testimonianza per paura di perdere l’anima. Il Pd, che ha scelto di rassicurare il centro con l’ annuncio “andiamo da soli“ di Walter Veltroni, stenta a trovare la sua anima. Un discorso a parte meriterebbe la presenza, qua e la, di candidati gay, con il rischio che una presenza significativa di un mutamento di valore generale venga banalizzata, assimilata alla rappresentanza di una qualsiasi “categoria” di elettori portatrice di interessi particolari.
Ci sono poi regioni (quelle meridionali) in grande sofferenza. Dimenticate, non nominate nei programmi. Se la Campania in questi giorni tira un respiro di sollievo e si intravvede una qualche uscita dalla fase più terribile dei rifiuti, le ferite dell’emergenza restano tutte aperte. Il ceto politico ha fallito ma non intende dare un segno di voltare pagina; il suo fallimento pesa sulla crisi alberghiera, dell’artigianato, del settore alimentare.
Eppure, nonostante l’immobilità di un Paese molto “sfilacciato“ (il cardinal Bagnasco), ridotto a “mucillagine“ (il sociologo De Rita), “al naufragio“ (Don Verzé, fondatore dl San Raffaele), dove vige “una scarsa autostima generale“ (Luca di Montezemolo, ex presidente di Confindustria), qualche cambiamento va segnalato. Oltre le esternazioni di leaders e sottoleaders.
A occhio, perlomeno nelle liste della Sinistra Arcobaleno, mi sembra che ci sia un numero alto di donne. Il Pd ha totalizzato un 35 % di candidate. Fin qui è stato rispettato il regolamento per le candidature (art.9) che assicura “una rappresentanza femminile pari a un terzo delle candidature e dei potenzialmente eletti“.
Solo che “le potenzialmente elette“ sono state piazzate nella parte inferiore delle liste, in posizioni di rischio. Nel Pdl si arriva al 25 %; si segnalano graziose vallette ma anche qualche donna combattiva. Nel Centro il numero delle donne è ancora più basso, un venti per cento striminzito.
Bisognerà aspettare il 15 di aprile per sapere quante donne saranno elette. Forse però non si tratta solo di un uso ornamentale del sesso femminile benché sia ancora presto per cantare vittoria. Nel frattempo Daniela Santanché, destra postfascista, è l’unica candidata premier con una sua forza autonoma.
Certo, ringiovanimento, femminilizzazione sono stati i termini usati dai partiti per placare un’opinione pubblica esasperata dalle magagne della “casta“. Ma non è così che i partiti riescono a fare la differenza.
Tuttavia, anche la politica dei movimenti (penso a quello che sarebbe rinato dopo la manifestazione del 24 novembre scorso contro la violenza sessuale) non è sfolgorante.
Prima dissonanza, sull’8 marzo. Viene attaccata la manifestazione indetta dai sindacati. Eppure, questa data appartiene a tutte e a chi la vuole celebrare. Onorare. Rilanciare. Ci possono essere modi diversi per farlo: manifestazioni (i sindacati, le Camere del lavoro, le fanno da decenni), incontri, dibattiti, proiezioni di film, mazzi di mimose, cene tra sole donne. Chi invece non ama i rituali, le ripetizioni, le commemorazioni, questa giornata la evita. E non da oggi.
Perché pretendere che sull’Otto marzo ci sia unanimità e prelazione e priorità del tipo: “Giù le mani da questa data“?
Invece questo diceva a chiare lettere il documento conclusivo dell’assemblea delle donne a Roma dello scorso 23-24 gennaio. Susanna Camusso, segretaria generale Cgil Lombardia, ha parlato di “settarismo“. Gli spazi delle donne non hanno bisogno di alzare dei muri per essere difesi. E nemmeno di un solo messaggio, una sola certezza, una sola verità, una sola visione manichea e a tinte forti: noi di qua, loro (sindacati, partiti, medici, professori, preti, uomini) di là.
Invece la cosa, vale a dire il settarismo, si ripete in questi giorni e ore. Adesso è “il movimento femminista e lesbico“ che accusa di “lesbofobia“ una donna seria e sapiente come la giornalista Ida Dominijanni che introduce a Roma3 la teorica del queer, Judith Butler.
Quante sostengono con Ida che le scelte sessuali, se esasperate in senso identitario, non producono di per sé una buona pratica politica, vengono strapazzate violentemente. Fate parte della “mistificazione in stile lato romano di Via Dogana“ dicono alcune nel rinascente movimento. Può darsi. A me sembra però che qualche dubbio sarebbe utile continuare a averlo, tanto per tenere aperto il discorso. Tanto per continuare a parlarsi.