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Maternità e aborto, cose da donne

2 Febbraio 2008
di Eugenia Roccella

Questo articolo è già uscito sul Foglio
Parlare di aborto vuol dire parlare di maternità. Impossibile fare altrimenti; non è tollerabile ridurre l’aborto (qualcuno ancora ci prova) alla colpevolizzazione sessista delle madri cattive e omicide, ombre nere che si allungano sul minuscolo embrione annidato nel tepore uterino. Le madri sono quello stesso tepore uterino, sono quelle che danno la vita e sanno che regalare la vita vuol dire preparare la morte. Chi fa la magia bianca fa anche la magia nera, ha detto Anna Bravo, ed è così. Uno dei libri più amati dalle femministe è “Nato di donna”, di Adrienne Rich; il titolo riprende un’espressione biblica, che si legge per ben tre volte nel lamento di Giobbe, piegato dalla sofferenza: “L’uomo nato di donna, vive pochi giorni, e sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura”.

Cos’è la maternità? Nessun uomo lo può sapere. E’ il nostro vanto e la nostra schiavitù, è la somma di tutti gli appellativi con cui viene chiamata la Madonna, Rosa aulentissima, madre misericordiosa, Regina di tutte le donne… Elsa Morante lo sapeva dire meglio di tutte, lei che non aveva avuto figli, che la maternità è l’onnipotenza abbagliante delle femmine, la meravigliosa retorica della gatta capace di uccidere ed essere uccisa per difendere i suoi piccoli. Sì, le donne lo sanno, anche le suore (“madri”, appunto) anche chi i figli non li vuole, e non li ha, anche le single felici e contente di essere child-free. Gli uomini no. Per questa loro assoluta inconsapevolezza e sottovalutazione del materno, avendo il potere sociale, hanno costruito un sistema giuridico e un accesso alla cittadinanza basati sul loro corpo: un corpo che appartiene solo a loro, che non genera, non si divide, che è “individuo”.
Le donne, invece, si dividono. Il loro corpo è capace di contenerne e nutrirne un altro, di sdoppiarsi, essere due in uno fino all’ultimo, anche dopo la nascita: due esseri legati da un cordone che va tagliato, fisicamente e simbolicamente. Le donne non sono “individue”. Per secoli il mondo delle donne e quello degli uomini è stato rigidamente separato, alle donne la cura, l’affidamento, le dipendenze del corpo e del cuore, la nascita e la morte; insomma, il privato. Agli uomini il potere, la parola, la legge; insomma, il pubblico. La maternità e l’aborto appartengono al privato, sono cose di donne, cose che lasciano gli uomini fuori dalla stanza.
L’aborto c’è sempre stato; c’è, naturalmente, quando è punito, e le donne ogni tanto finiscono in tribunale a farsi svergognare di fronte al mondo dei loro peccati, come Gigliola Pierobon, operaia diciassettenne “perdonata” dal giudice nel 1973. Se è illegale le donne sono egualmente disposte a farlo, in qualunque modo, facendosi infilare nell’utero ferri da calza, ingoiando intrugli velenosi, disposte a rischiare e a morire come le donne i cui nomi ancora ricordo, Petruzza Loprete, Rosalba Morandi, e tante altre. Nel 1976 la rivista dell’Università Cattolica, “Medicina e morale”, stimava gli aborti clandestini tra i 100 e i 200.000 l’anno. Allora femministe e radicali, per motivi di propaganda, esageravano, mentre i cattolici facevano stime realistiche, ma sempre enormi e tragiche.
Oggi in Italia gli interventi sono circa 130.000. L’aborto c’è, ci sarà sempre, perché ci sono sempre donne che si spaventano, che non credono di avere in sè la forza per essere madri, per contenere nel proprio io, e non “solo” nel proprio corpo, un’altra vita. Cari, carissimi amici maschi, cari padri e non padri, ci pensate? Sapete cosa vuol dire che ogni volta che fate l’amore o –come si dice oggi- fate sesso, dovete prendervi la responsabilità tutta intera di avere un figlio, magari con la giovane ucraina che trovate per strada e pagate? E meno male che oggi, con l’analisi del Dna, anche la paternità è certa, e qualcuno comincia ad avere esperienza di un fatto che per le donne è sempre stato iscritto nel corpo e nel cervello: che l’amore è associato a una responsabilità che si assume per sempre, anche quando è un gioco distratto e leggero. Va bene: cercherò di non lasciarmi andare al mio veterofemminismo, non farò rivendicazioni, terrò a bada il tasso di acidità.

La maternità, e quindi l’aborto, per il diritto “maschile” è impensabile, un assurdo, fonte di dilemmi giuridici: una donna incinta è una o bina? Se si suicida, è anche un’assassina? Se viene uccisa, il colpevole ha commesso due omicidi? Se viene investita da un’auto, i danni sono doppi? E’ per questo che le femministe non hanno mai detto che l’aborto è un diritto, ma anzi, qualcosa che “esula dal territorio del diritto”.
Una donna che abortisce l’altro che è in sé, sa che è insieme altro e sé. Per questo anche chi vorrebbe sancire il reato d’aborto poi esita a essere del tutto coerente, a comminare pene da omicidio -venti, trent’anni- alla donna (e naturalmente al padre e al medico). E la responsabilità del padre? Deve avere voce in capitolo? Se una donna non vuole il figlio, il padre può imporle di non abortire e tenerselo lui? Per farlo, basterebbe un registro nazionale del Dna, in base al quale si possa sempre risalire al padre, così l’aborto sarebbe una scelta, e una colpa, davvero paritaria. La verità, temo, è che il problema è irrisolvibile, non si può fare una legge “giusta” sull’aborto. Intorno a una legge che regoli l’interruzione di gravidanza si può pontificare, almanaccare, attaccarsi ai cavilli, oppure puntare dritti sull’ipocrisia benevola, il meno peggio, il così così.
O invece, come fanno le amiche emancipazioniste, dire spavaldamente che l’aborto è un diritto, perché solo così saremo libere “come gli uomini”, visto che libertà, cittadinanza e diritto li hanno inventati loro, e se li vogliamo, dobbiamo seguire le regole dei maschi e mettere tra parentesi la nostra differenza.

E poi, le cose stanno vertiginosamente cambiando. L’embrione non è più protetto dal buio avventuroso ma ovattato del corpo materno, è spesso esposto (“in vitro”), manipolato, creato in laboratorio. L’aborto è un fatto antico, carnale, vissuto nel corpo e nella coscienza di una persona, e le donne sanno benissimo che quel grumo di cellule dentro di loro è un figlio degli uomini. L’embrione generato dall’incontro dei gameti nella provetta, romantico come l’incontro su un tavolo operatorio di una macchina da cucire e di un ombrello, non è più figlio di nessuno.
Può essere clonato (ma non ci riescono), può essere umano solo al 99%, e per il resto animale, come vorrebbe il ricercatore inglese Stephen Minger. E’ radicalmente disumanizzato, e torna ad essere umano solo quando ritrova il suo posto naturale in un utero femminile. Ci voleva Shinya Yamanaka per affermare coraggiosamente, dopo averlo visto al microscopio, che l’embrione era simile, troppo simile, a sua figlia, per distruggerlo e farne cellule staminali. E però, se dovessimo essere davvero coerenti, anche lì dovrebbe puntare la nostra indignazione, anche contro la strage di embrioni in laboratorio, tanto più assurda, immotivata, seriale, fatta non in nome di un sentimento personale, ma di una scelta impersonale, arrogante e furiosamente ideologica. Anni di galera, per legge, agli scienziati che giocano ad essere Dio? Perché non trascinarli davanti a una giuria e accusarli di non aver avuto cura di quel piccolo essere inerme affidato alla loro sensibilità e alle loro mani, svergognarli, farli piangere, e poi magari “perdonarli” per via della giovane età o delle attenuanti socio-economiche?
Ma il problema posto da Ferrara non è la legge. E’ lo scandalo ignorato, che chiede almeno la moratoria simbolica; è l’invito a smettere di sottovalutare il problema, a considerare vita la vita, sempre, fin dal suo inizio, e non solo per gli adulti e per tutti i Caini, colpevoli e innocenti, del mondo. Sono d’accordo.
Bisogna porsi il problema di 46 milioni di non nati, dei paesi asiatici che da soli sommano oltre la metà degli aborti nel mondo. E sono aborti voluti dai governi, finanziati dall’Onu, attraverso organismi come il Fondo internazionale per la popolazione (sarebbe meglio dire per lo spopolamento). L’Onu che vota, faticosamente, la moratoria sulla pena di morte, è la stessa che ha prodotto 150 milioni di donne sterilizzate nei paesi terzi, e che promuove in ogni modo la denatalità, mascherando l’autoritarismo demografico da libera scelta.
L’aborto è il necessario complemento di ogni politica demografica, lo sanno tutti i funzionari del family planning internazionale: inutile inondare le donne di pillole, cerotti ormonali, preservativi, spirali, se non c’è anche l’aborto di massa. Chissà se una moratoria potrebbe cominciare anche da qui, smontando l’idea che sviluppo e denatalità, nei paesi terzi, siano necessariamente collegati?
Per il resto, l’unica moratoria che ho visto concretamente attuata è quella dei Centri di aiuto alla vita, pieni di donne straordinarie nella loro ordinaria e sommessa scelta quotidiana, come la scrittrice Marisa Madieri, scomparsa pochi anni fa, Antonella Diegoli o Paola Bonzi, che alla clinica milanese Mangiagalli collabora con i medici che fanno gli aborti, e ha fatto nascere nell’ultimo anno 800 bambini. Come ci è riuscita? Non ha fatto prediche, non ha inseguito le donne: le ha ascoltate. Le ha aiutate a riconoscere la propria forza, a illuminare i propri desideri profondi e le risorse nascoste, a non sentirsi troppo sole in un mondo che considera la maternità un lusso privato, e l’aborto una soluzione indolore.

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