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Un uomo non capisce l’essere due della maternità

26 Gennaio 2008
di Claudia Mancina

Al Direttore del Foglio Giuliano Ferrara
Devo confessare uno stato d’animo contraddittorio, tra il desiderio di intervenire sulla sua proposta di “moratoria dell’aborto”, e la difficoltà di farlo. Lei infatti ha confezionato un pacchetto nel quale non si possono separare i singoli pezzi, operare distinguo, dosare accordi e disaccordi: in ciò sta l’efficacia dell’operazione. Inoltre, lei pone alcune premesse che vincolano la discussione in modo eccessivo. Dice di voler fare un dibattito, ma intanto presenta l’aborto legale come espressione e risultato – almeno oggi – di una cultura egoistica, consumistica, distruttiva di ogni valore, che non esita a ricorrere all’eugenetica. Automaticamente, chi difende l’aborto appare anche portatore di questa cultura. Tutto ciò non rende facile il confronto.
Ma voglio prendere sul serio la volontà di discussione e provare appunto a discutere. Nel suo discorso io vedo alcuni paralogismi, o scorrettezze di argomentazione, che sono, almeno per me, le ragioni della difficoltà del confronto. Il primo è nell’affermare con assoluta assertività e certezza – come un’evidenza – che l’aborto è puro e semplice omicidio, pura e semplice uccisione di un bambino. Sebbene questa identificazione sia sta fatta (non sempre, ma negli ultimi decenni) dalla Chiesa cattolica, la gran parte delle persone, delle istituzioni e delle religioni del mondo, anche quando giudicano illecito l’aborto, non sono della stessa opinione. Questa non è una evidenza indiscutibile, ma è invece precisamente il punto del contendere.

Voglio dire che non si può costruire un’argomentazione cosiffatta: è evidente e indiscutibile che l’aborto è l’uccisione di un bambino; dunque è un omicidio; l’aborto legale è paragonabile alla pena di morte; dunque le donne che abortiscono sono delle assassine, e l’aborto va abolito e perseguito. (Quest’ultimo passaggio naturalmente non c’è e anzi viene negato; ma consegue logicamente e necessariamente dai precedenti punti.) Non si può, perché è il primo passo che è scorretto. Non è affatto evidente e indiscutibile che l’aborto sia l’uccisione di un bambino. Un feto non è un bambino. E questo non vuol dire considerare l’aborto una cosa moralmente indifferente. Provo a spiegarmi. L’aborto volontario è indiscutibilmente la soppressione di qualcosa di vitale, ma non di una vita individuale, non di un individuo. Perché il feto – almeno sino a un certo stadio della gravidanza, che può essere identificato, a scopi pratici, col momento della sua possibilità di sopravvivenza fuori dell’utero materno – non è un individuo.

Capisco che gli uomini tendano a identificarsi con il possibile figlio piuttosto che con la madre, ma uno sforzo di uscire dall’immediatezza del sentimento di identificazione dovrebbe aiutarli a capire che la gravidanza, con questo suo essere due in una, è una condizione umana molto, molto speciale. Speciale dal punto di vista fisico; ma poiché siamo (si spera) esseri morali, questa speciale fisicità è anche moralmente significativa. Il feto sta dentro il corpo della madre e la sua vita non è distinguibile da quella di lei. Fino ad un certo momento, sono due vite in una. In quella della madre.

Alcune (anche Chiaromonte e Paolozzi) ne derivano l’assoluta primazia della madre sulla vita e sulla morte del feto, concludendo qui il discorso morale. Io non sono d’accordo. Penso che ci sia comunque, tra vita del feto e vita della madre, pur indistinguibili, una tensione, psicologica e morale, che può a volte diventare conflitto. E quando ciò avviene, per tante possibili ragioni, che non sono solo economiche o sociali, una donna può sentire impossibile la prosecuzione della gravidanza. Molto difficilmente, molto raramente, queste ragioni sono futili. Per un motivo semplice, che altre già hanno detto: per qualsiasi donna l’aborto è anche – in modo conscio o talvolta inconscio – un gesto autodistruttivo.
Tuttavia, proprio a ragione di quella tensione tra donna e feto, si deve riconoscere un valore al feto, che non è riducibile alla “primazia della madre”, e che è giusto tutelare. La legge lo fa anzitutto ponendo dei limiti temporali alla possibilità di interrompere la gravidanza; e anche prevedendo uno spazio di consulenza e quindi di riflessione tra la decisione e la sua attuazione.

Anche questa osservazione, comunque, non esaurisce il problema morale. Che a mio parere si articola così: nessuno può obbligare una donna a proseguire una gravidanza non voluta, così come nessuno può obbligarla a interromperla. Sta a lei, e solo a lei, prendersi la responsabilità morale della scelta. C’è infatti il valore prevalente della indipendenza personale, del non appartenere ad altri; valore che, essendo noi anche una specie animale, si radica nel corpo. Che non può essere sequestrato da nessuno, né Stato, né Chiesa, né società. Questo principio che nella civiltà occidentale (sì, quella che ha anche evidenti radici cristiane) è diventato fondamentale, tanto da non poter essere sospeso che con l’uso solenne della forza dello Stato e con il necessario intervento del potere giudiziario, deve valere anche per gli umani di sesso femminile. E deve essere bilanciato con il rispetto e la tutela che si deve al feto. Almeno sino ad un certo punto della gravidanza, non può non prevalere.
Non è un caso che nessun antiabortista arrivi a dire che si devono sequestrare le donne e obbligarle a partorire. Perché è impensabile. Dunque quel che si dice è che la legge non deve legittimare l’aborto, e che poi per le donne che abortiscono si avrà comprensione e compassione. Ma alle donne che sono cittadine di una società fondata sull’eguaglianza e sulla libertà individuale non si può offrire solo compassione. Ciò che devono avere è l’eguale dignità.

L’aborto, dunque, è senz’altro un atto distruttivo, che interrompe un processo vitale; ma non è minimamente paragonabile a un omicidio, e non deve essere criminalizzato, neanche metaforicamente. La società di fronte a una donna che abortisce dovrebbe solo tacere, e aiutarla o ad abortire, se questo le appare necessario, o ad evitarlo, se questo è possibile. La legalizzazione dell’aborto ha l’obiettivo di fornire quest’aiuto.
E qui c’è il secondo paralogismo. Lei scambia l’aborto con la sua legalizzazione. Lei argomenta come se fosse la legalizzazione a produrre l’aborto; o a produrre l’eugenetica, o a produrre le missing women, le donne mancanti di Amartya Sen. Ora, è chiaro che la legalizzazione non produce l’aborto né il modo in cui esso viene usato; ma si limita a regolamentarlo, definendo un diritto della donna al sostegno sanitario e precisando limiti e procedure all’esercizio di questo diritto. Limiti e procedure che a molte femministe sono invise, ma che esprimono un equilibrio tra la libera autodeterminazione della donna e la salvaguardia sociale del valore morale del feto. (Lei, come molti cattolici, preferirebbe la depenalizzazione, senza limiti e procedure, pur di evitare il riconoscimento sociale della responsabilità morale e giuridica della donna sulla sua gravidanza?) Non un diritto a nascere, dunque, né un diritto assoluto all’aborto. Non esistono diritti assoluti, ma diritti in equilibrio con altri diritti e valori. Nel caso del feto parlo di valore e non di diritto, perché il feto non è un individuo e quindi non può essere soggetto di diritti. Ma ha un valore.

Dunque siamo tutti antiabortisti, caro Direttore. Siamo antiabortisti nel senso che consideriamo auspicabile che ci siano meno aborti e non più aborti. Le leggi sull’aborto – in particolare quella italiana, pur così combattuta – non fanno aumentare gli aborti, ma li fanno diminuire. Perché la decisione di abortire non è tipicamente di donne forti, consapevoli, indipendenti. E’ di donne che non riescono a gestire la loro sessualità, per ignoranza o solitudine o difficoltà di vita. La legalizzazione dell’aborto ha aiutato e aiuta le donne a maturare un rapporto più sereno con il proprio corpo e con la propria capacità riproduttiva, perché fa uscire dall’oscurità la sessualità femminile. Perché diffonde la consapevolezza e la contraccezione (che non è tutta la prevenzione, ma ne è certo una parte sostanziale). Su questo ha scritto cose molto belle Mariella Gramaglia.

Lo stesso discorso vale per la supposta deriva eugenetica. Io non sono affatto certa che questa ci sia; ma concedendo per un attimo che sia così, non è l’aborto legale che produce la mentalità eugenetica, semmai è solo uno strumento di questa. Se non ci fosse, ce ne sarebbero altri: in primo luogo l’aborto clandestino. E’ un’illusione ottica quella che fa pensare che l’abolizione o la restrizione (o la delegittimazione) della legge abolirebbe l’aborto. Non farebbe altro che sostituire all’aborto legale l’aborto clandestino. E questo credo che non lo voglia nessuno. L’aborto – a differenza della pena di morte – non si può abolire; se ne può ridurre l’incidenza, con una buona legge, come la 194, e con opportuni interventi a sostegno delle donne in difficoltà (che oggi, com’è noto, sono soprattutto le immigrate). Qui si apre il discorso della prevenzione, e io credo che su questo si possa fare di più, anche nei consultori, con intelligenza, con discrezione, offrendo aiuto e stimolando riflessione, ma senza violare la libertà di decisione delle donne.
Concludo sulla questione delle donne mancanti, che è stata usata un po’ troppo strumentalmente. Non solo perché la selezione dei feti in base al sesso non nasce con la diagnosi preimpianto (e quindi con l’aborto), ma è stata fatta da sempre, con lo strumento ben più feroce dell’infanticidio. Amartya Sen, che ha una specie di copyright sul tema, lo ha sollevato soprattutto in relazione alle differenze di trattamento delle bambine (nate) rispetto ai maschi. Fino a dire esplicitamente: “L’infanticidio femminile, benché esista, non può in nessun modo spiegare né l’entità della mortalità in più, né la sua distribuzione per età. La causa principale sembra essere, caso mai, il fatto che la salute e l’alimentazione delle femmine vengono trascurate…” (Lo sviluppo è libertà, p. 111).
La soluzione per Sen, come sanno tutti i suoi lettori, sta nell’istruzione e nell’acquisizione di diritti da parte delle donne. E questo credo dovrebbe essere anche il punto d’arrivo di un dibattito serio sull’aborto. Gli aborti possono diminuire solo se sempre più donne sono istruite, consapevoli, indipendenti. Con ciò non saranno prive di problemi, di dolori, di difficoltà. Forse un certo tasso di aborti ci sarà sempre; e saranno sempre non una liberazione o un gesto di potenza femminile, ma una sconfitta o almeno una rinuncia. Ma se davvero vogliamo che l’aborto diventi un residuo del passato, dobbiamo essere consapevoli che l’aborto legale è il più potente aiuto per ottenerlo.

Claudia Mancina

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