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L’aborto, la legge e le rimozioni maschili

16 Gennaio 2008
di Silvia Neonato

L’aborto non è un diritto, non è una questione puramente sanitaria o un intervento chirurgico tra tanti, come dicevano alcuni radicali tanti anni fa semplificando troppo e comunque in totale dissidio con il movimento delle donne che aveva già allora fatto i conti con gli aborti clandestini.
Perciò, prima di discutere di revisioni della 194 – democraticamente approvata nel maggio ’78 – è assolutamente indispensabile ricordare che quella legge, voluta da migliaia di donne in una battaglia durata anni, dai laici ma anche da molti cattolici, nacque per evitare gli aborti clandestini (e la morte a volte atroce di molte ogni anno) e per affrontare i problemi fisici, psicologici ed economici che spingono una donna a interrompere la gravidanza.
Non conviene a nessuno ed è eticamente indecente dunque farne un mero strumento della lotta politica perché rimanda a scelte private comunque strazianti, a carne lacerata, a bambini che non nasceranno ma che sarebbe altrettanto mostruoso far nascere per forza contro la volontà materna dato che la donna non è solo un contenitore, ma nutre dentro di sé la propria creatura anche di amore e accettazione.
L’importante dunque, quando si parla di feti e embrioni, sarebbe ricordarsi che non sono pure entità a se stanti: c’è una madre che vive con loro, che li nutre, che sogna o si strazia.
Per tutte queste ragioni abbiamo oggi il diritto, razionale e civile, di appellarci alla legge e di difenderla, come scrive Edmondo Berselli sull’ultimo numero dell’Espresso, contro volgari distorsioni e attacchi propagandistici. Ricordandoci che, proprio come allora, a utilizzarla sono le donne immigrate o comunque quelle povere o socialmente svantaggiate, molto di più delle italiane.
Lo dicono i dati che danno comunque gli aborti in costante diminuzione da anni. Per fortuna le nostre figlie hanno imparato a gestire la propria sessualità senza cadere nella tragica, finta “soluzione” dell’interruzione di gravidanza. Evidentemente ha funzionato il dialogo con genitori più liberi di quelli che avevamo noi e la legge ha creato un nuovo clima in cui è possibile parlare di sessualità e di prevenzione. Non ancora abbastanza e questo è certamente il punto, previsto nella 194, che va ulteriormente potenziato, migliorato, magari modificato, nulla è immodificabile.

Ma proprio perché l’aborto rimanda alle grandi domande sulla vita e la morte (come l’eutanasia, del resto), a scelte personali che la legge può comporre senza però sanare le contraddizioni, non possiamo metterci solo sulla difensiva o liquidare la provocazione di Giuliano Ferrara come violenta (e lo è, orribilmente). Con la consueta capacità di scatenare mettere il dito in temi che agitano davvero le coscienza, Ferrara ha imposto la questione della 194 all’agenda politica, come sempre accade quando un uomo parla di aborto.
Ferrara, come si ricorderà, ha proposto una moratoria dell’aborto da far seguire a quella della pena di morte, con l’avvallo e il sostegno, delle gerarchie ecclesiastiche. Fatta salva la libertà di opinioni e la buona fede di ciascuno quando dichiara un genuino amore per la vita (e chi non la ama in questo disperato momento di crisi planetarie e incertezze?), il linguaggio è insopportabile. Perché tramuta le donne che abortiscono in assassine, peggio boia, dimenticando che, come ha scritto il giurista Luigi Ferrajoli, la pena di morte “è decisa dallo stato sul corpo di un cittadino, l’aborto è deciso dalla donna sul proprio corpo”.
Ogni donna lo sa ed è la prima a temere, in un certo senso, il proprio potere riproduttivo quando scopre, ragazzina, il primo sangue mestruale. Da sempre la donna ha dato la vita ma anche la morte: lo fanno oggi le cinesi abortendo illegalmente molte più femmine che maschi, viste le limitazioni alle nascite imposte per legge. Vogliamo tornare in clandestinità anche da noi o non è meglio che una legge permetta di prevenire, educare, assistere e confortare pubblicamente un’esperienza indimenticabile per ognuna, anche per la più giovane e irresponsabile?
Dare la vita riguarda anche gli uomini che però non parlano mai della propria sessualità, men che meno quando affrontano il tema dell’aborto, mentre dibattono dottamente di etica, religione, politica, filosofia e diritto. Forse che non tocca anche a loro prevenire una gravidanza indesiderata quando fanno l’amore? Perché tanti uomini parlano dei feti come se, solitari messaggeri di vita e speranza, venissero da Marte e non dal seno delle donne che hanno accanto e che magari non trovano la forza di metterla al mondo, quella vita?
L’aborto è una sconfitta femminile strettamente intrecciata anche alla sessualità maschile, alla relazione con l’uomo che dovrebbe sapere separare il piacere dalla riproduzione. Coraggiosamente ne ha scritto solo Alberto Leiss (sul sito donnealtri.it). Se Ferrara e i suoi seguaci dicessero – scrive Leiss – “facciamo prima di tutto in quanto eventualmente padri tutto il possibile per accogliere queste vite potenziali, per far sì che il concepimento sia sempre consapevole e voluto, per costruire un mondo in cui dare alla luce un figlio sia desiderabile per una donna, ci sarebbe poco da obiettare”. E ancor più “ ci sarebbe da convenire se venisse nominata anche l’esigenza così maledettamente banale di usare tutte le dovute precauzioni, in particolare da parte maschile. Perché è questa la vera causa – mai citata – dell’aborto”. È sbagliato?

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Secolo XIX

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