Al direttore del Foglio Giuliano Ferrara. La ringrazio se vorrà ospitare questa mia testimonianza.
Trentanni fa a Firenze. Ero una giovinotta , appassionata di cose più grandi di me: la morale, la religione, l’urgenza di dedicare la vita agli altri, agli ultimi. Ammiravo e amavo La Pira, don Milani e Balducci. Ne fui ricambiata.
Con grandi aspettative sulla vita e sulle possibilità di cambiare il mondo, piccola matricola, mi ritrovai in un appartamento di studentesse più grandi che discutevano su quello che avveniva intorno al dott. Conciani (mi pare si chiamasse così, il medico radicale che praticava gli aborti clandestini). Un impatto durissimo. Ricordo una ragazzina, ancora più sprovveduta di me che scoppiò in lacrime davanti ad un bambolottino di plastica che saltò fuori da un sacchetto di patatine. Voleva abortire. Mi guardava e mi chiedeva aiuto. Aveva paura ad andare da quel dottore lì. Era sola, completamente sola, come nella vita si è sempre nei momenti decisivi, ma una solitudine che diventa insopportabile quando si è tanto piccoli e indifesi, lei come il suo piccolino (si era accorta della gravidanza al quinto mese!). Le stetti accanto, vicina. la sua paura di quel medico le impediva di ascoltare qualsiasi mio discorso sul bambino. Non ero femminista.
Non scesi mai in piazza con le mie amiche femministe a gridare “l’utero è mio e me gestisco io” ma appoggiai la legge 194. Senza entusiasmi, ma con convinzione.
Giravo l’Italia in treno a parlare nelle parrocchie di sperduti paesini a spiegare che si doveva votare a favore della legge 194.
In quelle stesse parrocchie dove mio padre, un medico laico con un senso della vita aperto, allegro e incrollabile, girava a mostrare i filmini del movimento per la vita di cui era attivo militante.
Gli contestavo la mancanza di pietà in quella cruda esibizione in cui le donne erano ridotte a pure assassine. Lui mi spiegava che quei grumi sarebbero diventati veramente bambini e che, noi donne non li volevamo vedere per paura. E che la vita è la cosa più importante che l’uomo possiede. Anche per la donna e l’uomo che non credono. Si convertì allora al cristianesimo e divenne poi missionario in Africa.
Ma le donne, con il loro corpo, dicevo io, loro dove sono?
Avevamo ragione tutti e due.
Nel 1972 organizzai con l’appoggio di Padre Balducci un seminario di studi sull’aborto e le donne cattoliche: non esitammo un attimo a riconoscere che si trattava di una soppressione della vita umana ma pensavamo che a differenza della pena di morte e delle morti in guerra quella vita dovesse essere custodita dall’amore di una donna. Alla quale non si poteva e non si può imporre di generare contro la sua volontà. E da allora le tante e belle discussioni con Carlo Casini che mi incitava con pazienza a convincere le mie amiche femministe sulla verità che stavano maneggiando: una vita. Mentre io gli rispondevo che proprio per fare crescere quella consapevolezza la legge era utilissima. Ho visto sotto i miei occhi cambiare i Centri di aiuto alla vita: da isterici luoghi di propaganda colpevolizzante a luoghi riflessivi di aiuto concreto, di vera azione solidale in sinergia con gli operatori dei consultori.
In questi trent’anni sono stati tanti gli sforzi per parlarsi, non clamorosi, sotterranei, fragili. Anche tante femministe,”storiche” ormai de iure e de facto, data l’età e che ora si sentono così offese dalla moratoria, si sono avvicinate ai temi della vita e della morte sotto il segno dell’invecchiamento, della fatica di vivere, della malattia. Da loro ho percepito, in questi anni, una pietà compassionevole per il liminale, per il piccolo. Pensi al bellissimo dibattito avviato qualche tempo fa da Anna Bravo sulla poca consapevolezza femminile di quegli anni. Sentimenti pacati, non gridati ma veri. Perché per tante donne della nostra generazione il limite è diventato un approdo di maturazione, che le porta a rifiutare gli eccessi delle manipolazionie scientiste sul proprio corpo, sulla propria maternità, sulla vita dei propri cari. Il limite, accolto non in modo prescrittivo ma con maturità dopo le seduzioni del giovanilismo e dell’onnipotenza è garanzia anche di benessere del proprio corpo e dei propri desideri. Non solo la ricerca del bene come astratto precetto morale ma la ricerca del proprio benessere che, di fatto, coincide con l’apertura alla vita.
Non buttiamo via tutta questa vita cresciuta sugli errori del passato e che anche per questo è più matura e profonda. Non riportiamo il dibattito indietro, facciamolo crescere oltre le provocazioni e le condanne. Facciamolo maturare davvero nel confronto con le donne.
Ora lei, caro direttore si è rovesciato su questa fragile tela come un caterpillar. E noi cattolici ne siamo molto contenti, anche se lei vede in noi democratici troppa tiepidezza. Non è così mi creda. Non siamo meno convinti ed appassionati di lei. Semmai, come Messori, un po’ invidiosi e scontenti per lo scarso riconoscimento del lavoro altrui. Ma qui non sono in gioco le permalosità. L’ ipertrofia dell’io – l’ inarrestabile malattia comune sia dei laici come dei cattolici – è la più grande, potente minaccia all’accoglienza della vita, come ci insegna la psicoanalisi insieme alla religione.
Quando alcune donne le rimproverano un approccio tutto maschile, quando Mariella Gramaglia vede “il maschio pronto con i ramponi per un‘altra scalata” non credo dubiti minimamente, come lei ama ripetere, che lei stia tranquillamente “ben seduto sul suo culo” ( Montaigne). Il riferimento è all’amore concreto per la vita vera, quella vita, quella persona, quegli affetti. nella sua concretezza prosaica. E fattiva. Una cura che vedo assai poco in voi, uomini laici, ancorchè devoti. Lo vedo negli uomini e nelle donne di fede ( quella vera, fatta di opere) e nelle mie amiche (ex- femministe). E non è un caso che l’aborto abbia una sua storia nella pratica del vissuto religioso del rapporto tra la donna e il prete, il maschile davvero più vicino alle donne perché ne condivide la condizione e lo spirito di accudimento e di esperienza concreta. Il confessore ha sempre avuto una sottile, profonda intimità con quella scelta della donna che non è permissività accondiscendente ma compassione-comprensione ed educazione alla vita, incoraggiamento gioioso.
La vita è un dono di Dio non un dovere né un diritto. L’aborto è un grande ossimoro del femminile. Spieghiamoci più chiaramente: l’aborto uccide una vita in atto (Aristotele), quindi non solo non è un grumo di materia e neppure solo una vaga ed indistinta materia vivente, è una vita, un bambino in potenza. E perché, allora, sono però d’accordo con la mia amica Mancina quando rifiuta il termine omicidio e assassinio? Non perché abbiamo paura di dire le cose con il loro nome ma perché l’aborto è una uccisione, molto molto particolare che non ha nulla, ma proprio nulla a che fare con la pena di morte. Non peggio o meglio. Assolutamente un’altra cosa, che ha a che fare con il corpo, la sessualità, l’amore. Questioni da maneggiare con delicatezza e consapevolezza. Non è così semplice, caro Ferrara, non sempre due persone che fanno l’amore sono “pensanti e senzienti”. Ma forse lo sa: è dalla sessualità che dovremmo ripartire tutti. E’ questo che manca nel dibattito sulla moratoria. Perché il tema del desiderio e della sessualità, dell’amore e dell’attrazione tra uomo e donna sono i veri assenti dal dibattito culturale dei nostri giorni.
Nella tradizione cattolica il valore dell’eterosessualità non è una questione morale. La donna è resa uguale all’uomo dalla venuta di Cristo, ma il suo valore non le deriva dalla sua uguaglianza con lui bensì dalla potenza della sua differenza. Lì alberga il genio femminile, non nell’essere simile ma diversa, molto diversa dall’uomo:“ più una donna è donna e più è vicina a Dio“ scriveva la teorica dell’onnipotente femminile materno novecentesco, Gertrude von Le Fort nella sua La femme eternelle.
Oggi lei torna a questa tradizione, quella del tutto diversa dal personalismo di Mounier che enfatizza la somiglianza tra uomo e donna più che la differenza. Il femminile quale rigenerazione dell’umanita’ a partire dalle sue radici profonde, originarie la terrestrita’, la natura, la grande madre, la terra.
Un pensiero forte, fortissimo sul femminile, tanto che a piu’ riprese il cristianesimo è stato accusato di avere effemminato e svirilizzato il processo di civilizzazione dell’occidente. Un pensiero che crea una affinità sotterranea tra il sentire religioso e la differenza femminile.
Ma come fare a comunicare tutto ciò, davvero, nel concreto delle esistenze femminili?
Mi ha sempre colpito negativamente che la chiesa parlasse della difesa della vita come un dovere.
Si deve amare la vita, non si può abusarne, non si può non donare, e via proibendo. Come se la vita il suo difenderla, non nascesse tanto dall’esserne innamorati ma da un dovere.
Ma mi sono convinta ancora di più che, se la sua difesa non è legata all’amore e alla gioia e dunque alla libertà, resta un comandamento arido, giuridico, buono semmai per soddisfare un bisogno etico. Tutte cose importanti , necessarie probabilmente nel con-vivere civile, ma che non stimolano e non comunicano nel profondo quella gioia che viene dall’amore per la vita.. I limiti e i divieti se non sono interiorizzati producono solo senso di colpa ma non scelte di vita e per la vita.
Una delle ragioni della difficoltà a comunicare la bellezza della vita è che questa non è sempre gratificante ma anche triste e mortificante e dunque, ci dice la chiesa, “dobbiamo”, amarla anche quando non ci appaga. Allora ho capito perché noi credenti facciamo fatica a comunicare questo senso della vita. Perché parliamo di “dovere” della rassegnazione che ci “deve” portare ad amare la vita anche quando le cose vanno male, invece il problema è accettare quello viene -anche il negativo- con profonda serenità, consapevolezza, lasciandole scivolare via senza voler trattenere solo il buono, soprattutto senza attaccarvisi con avidità. E non perché questo “si deve fare”, ma perché non avere attaccamento (paradossalmente neanche alla vita) fa stare bene, fa vivere meglio, fa vivere bene. Essere troppo attaccati a quello che vogliamo, che siamo, che pretendiamo, crea una vera infelicità, una insoddisfazione continua. La consapevolezza che nasce veramente solo dallo stare così come siamo, in qualunque situazione ci metta la volontà di nostro Signore è la vera cultura della vita, quella che possiamo comunicare con efficacia anche ai non credenti. E comunicarla con la nostra vita e non con una precettistica doveristica tutta imposta dall’esterno. Abbassando, tutti quanti, il nostro ego.
“Le norme del diritto naturale, ha detto il papa nella celebrazione della vita dell’8 dicembre del 2006- , non vanno considerate come direttive che si impongono dall’esterno, quasi coartando la libertà dell’uomo. Al contrario, esse vanno accolte come una chiamata a realizzare fedelmente l’universale progetto divino inscritto nella natura dell’essere umano.” E questo non per un facile umanesimo ma per quella “grammatica” trascendente che, in altre occasioni Papa Ratzinger, aveva inscritto nella natura umana. E questo perché all’origine del Verbo eterno alberga la ragione e non l’irrazionalità. C’è grande, profonda amicizia tra Dio e la ragione degli uomini . Questo ci viene sempre ripetendo il papa lanciando così un ponte per il dialogo con le altre fedi e con i non credenti, “Dio che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di noi” diceva Sant’Agostino. Con le nostre storture.
Emma Fattorini