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La libera scelta e la scelta giusta

26 Gennaio 2008
di Ritanna Armeni

Caro Giuliano Ferrara,
sento il bisogno di mandarti qualche riga da Parigi per due motivi. Perché la questione dell’aborto anche per me è troppo importante per poter essere liquidata fra noi in qualche battuta prima o dopo la trasmissione. E perché ho l’impressione che nella polemica – inevitabile quando si fanno delle battute e, pressoché d’obbligo, con il tuo caratterino – mettiamo da parte le questioni sulle quali potremmo constatare una vicinanza e non approfondiamo quelle sui cui la distanza per il momento non si può colmare.
Cominciamo dal punto in cui siamo più lontani. Tu dici che l’aborto è un omicidio, perché attraverso di esso si elimina una vita. Colpevole di questo omicidio è la donna, che avrebbe potuto essere madre e ha scelto di non esserlo. So bene che non è tua intenzione attaccare per il momento (domani non so )la legge 194 e che la tua è una battaglia culturale ed etica contro il disvalore rappresentato dall’interruzione di gravidanza, ma su questo punto di partenza la lontananza è grande. E, temo, incolmabile.
In generale le donne che hanno abortito, ti parlo per esperienza personale e per conoscenza profonda di molte di loro, non si sentono in colpa. Ti sei mai chiesto perché? Se non si pensa di liquidare la questione dicendo che dipende da una loro scarsa consapevolezza (che è più o meno come dire che le donne non hanno un’anima) alla domanda va data una risposta.
La mia è semplicemente questa. Nel momento in cui il corpo della donna è fecondato, esso contiene la possibilità di un’altra vita anch’essa autonoma e consapevole. Non quindi una semplice escrescenza, non grumo di materia ma, sia pure in potenza, una seconda vita. Dico “in potenza” non solo perché essa è priva di coscienza e di relazioni ma perché non può esistere senza la prima. Per un lungo periodo fa ancora parte del corpo della madre. L’uno si divide in due, ma la seconda entità è unita alla prima in modo così inscindibile che la donna nel momento in cui decide di eliminarla pensa di eliminare parte di se stessa. Per questo soffre, ma non si sente in colpa. Per questo parla di aborto e non di omicidio, per questo nel momento in cui la stacca da sé e si contrappone all’evento naturale della nascita compie un atto di violenza ma che è rivolto soprattutto al suo corpo che potrebbe diventare altro e non ad un “altro corpo”.
E pur tuttavia di un’altra vita si tratta. E allora eliminarla, sia essa così dipendente dalla prima, come io penso, o già del tutto formata e indipendente pone delle inevitabili domande: è un bene o un male? è giusto o ingiusto? Non ho dubbi ad essere d’accordo con te e a rispondere che è un male e che è ingiusto.

Ma poi c’è un’altra domanda: chi è responsabile di questo male e di questa ingiustizia? Qui di nuovo le nostre opinioni si dividono. La tua risposta è che la colpa è della donna che sacrifica il suo essere madre sull’altare della libertà, del piacere o dei diritti. Io credo che la donna sia insieme la vittima e l’esecutrice di una condanna che altri hanno deciso. E allora, ancora: chi emette quella sentenza che impedisce ad una vita potenziale di diventare vita reale attraverso un intervento traumatico e innaturale sul corpo femminile?

I motivi per cui si abortisce oggi sono molti. Alcuni sono simili, altri diversi da quelli per cui si abortiva trenta o cento anni fa. L’immigrata spesso abortisce perché non può mantenere un figlio, la ragazza perché vuole studiare e laurearsi, la donna che lavora perché preferisce per il momento dedicarsi ad altro. E, naturalmente, c’è anche chi si sente disturbata nelle sue comodità e nella sua libertà.

In un passato non troppo lontano si interrompeva clandestinamente la gravidanza perché fuori dal matrimonio era una vergogna. Voglio dire che ogni aborto anche se ha una storia propria, spesso dolorosa, appartiene anche ad una storia collettiva, al rapporto che in quel momento la società ha con le donne, la maternità, la paternità e la funzione della famiglia. Tu hai raccontato di recente una tua personale e dolorosa esperienza. La donna cui eri legato ha interrotto la gravidanza aiutata da una famiglia e da un ambiente di sinistra che a tuo parere con leggerezza proteggeva e giustificava l’aborto e che ti ha impedito di essere padre.

Io ho abortito, clandestinamente, e in modo disperato. All’origine una famiglia diversa dalla tua, di provincia, piccolo borghese e perbene in cui l’aborto era una vergogna perché non erano ammessi i rapporti sessuali prima del matrimonio. Non ho avuto protezione, né solidarietà, ma una sala da pranzo alla periferia di Roma, un medico gentile e un’amica che mi stringeva la mano. Non mi compiango, ma ho lottato e lotterò sempre perché nessuna donna viva quella brutta esperienza.
Tu accusi e condanni le donne in carriera che magari hanno la possibilità di mantenere un figlio e decidono di interrompere la gravidanza. Ti sei chiesto quanto ha contribuito quel mito del successo, del denaro, del potere che tanto permea la società in cui viviamo? E se un’immigrata, che nel suo paese non l’avrebbe fatto, decide di abortire non lo fa in nome di una speranza di una vita migliore per se e per l’eventuale figlio?

Non sto facendo del relativismo di bassa lega, né sto dicendo che non esistono responsabilità personali e collettive. Se riesco a finire questa lettera vedrai che non mi tiro indietro anche nella ricerca e nella individuazione di alcune colpe delle donne. Ma prima alcune cose ancora le devo dire. E queste riguardano l’oggi, l’occidente, il mondo in cui viviamo.
Tu accusi le donne di volere innanzitutto la libertà, di sacrificare a questa falsa dea principi più profondi e non negoziabili come quelli della vita umana. Ma perché le donne, solo le donne, dovrebbero essere estranee e non essere ammaliate dalla sirena delle false libertà? Anche esse vivono in un mondo in cui essa è stata esaltata nei costumi, nell’economia, nella vita sociale. Un mondo che molti di coloro che oggi fanno una campagna culturale e politica contro la libera scelta della donna non criticano, anzi apprezzano e approvano. In cui vige la libertà di distruggere la natura, di produrre senza alcuna considerazione per la vita degli uomini e delle donne, in cui – si dice, mentendo – tutti sono liberi di lavorare e di non lavorare, di fare sesso o di non farlo.
Se guardi bene oggi l’aborto in Italia riflette perfettamente la società in cui viviamo. Abortiscono le immigrate per bisogno e per speranza. Abortiscono le italiane ( sempre meno per fortuna) perché si adeguano ad una società che esige emancipazione (ed è un bene) e comodità e benessere certi per gli uomini e per le donne nel momento in cui decidono di fare un figlio. E questo anche a me mette dei dubbi.
Ma non solo sulle donne, bensì su tutti noi, sui nostri valori, sul nostro modo di concepire la vita. Dare la colpa alle donne è comodo, molto comodo. Consente di non vedere il resto, delimita il peccato, lo riduce alla responsabilità di un sesso, non mette in discussione nulla del resto, non guarda le cause. Non mette sotto valutazione critica la società e i valori che riproduce. Non guarda anche agli uomini, questo “primo sesso” così assente e così lontano, così privo di solidarietà nelle scelte pubbliche e private. E per peggiorare la situazione, per renderla più drammatica si ricorre alle parole assassinio o omicidio.
Non c’è bisogno, credimi, di ricorrere a queste parole per dire che sarebbe bene che una vita potenziale non venisse soppressa, che proseguisse il suo corso, che fosse accolta dal padre e dalla madre, che fosse frutto dell’amore e della solidarietà di una coppia.
Ma ti ho promesso di non tirarmi indietro rispetto alla responsabilità delle donne. Faccio di più. Non mi tiro indietro rispetto alle responsabilità delle donne della mia generazione, delle femministe, di coloro che hanno lottato per la libera scelta .
Abbiamo fatto bene, abbiamo fatto un passo importante. Non tornerei indietro neppure di un centimetro. Sono orgogliosa di quella battaglia. Ma abbiamo sbagliato quando abbiamo considerato quel passo definitivo e compiuto. Quando non abbiamo visto che garantire la libera scelta della donna era il primo gradino di una lunga scala e che gli altri gradini, una volta salite sul primo, erano di altrettanta importanza. Una volta che una donna è libera di scegliere diventa fondamentale cercare incessantemente la scelta più giusta.

Ci siamo ribellate alla società che non ci voleva libere di scegliere, ma subito dopo ci siamo adeguate ad una società che, in nome di quella libertà, confinava la maternità ad un ruolo secondario. Riduceva la nostra libera scelta a rinuncia, potevamo abortire ma non davvero procreare. Sento che questo è avvenuto, anche per colpa nostra, per un nostro peccato di omissione, per la nostra incapacità di andare avanti, per una sorta di pigrizia intellettuale.
Ti riconosco il merito di aver dato una scossa a questa pigrizia. Aggiungo però che il modo in cui stai conducendo la tua battaglia può portare ad un risultato opposto a quello che credo tu voglia raggiungere: la riduzione al minimo degli aborti, la consapevolezza che esso è un male per la donna, per la società e per quella vita in potenza che la donna contiene.

Parlare di omicidio e dare la colpa alla donna non può che portare ad un atteggiamento di difesa, ampiamente giustificato dalla profonda ingiustizia che questa affermazione contiene. Dire che quella vita che è dentro di lei non appartiene a lei, ma alla società, allo Stato e a Dio significa ridurre la maternità a fatto casuale e tecnico, non vederne la grandezza, il mistero, l’ambiguità. Sì, anche l’ambiguità, che va contemplata e accettata, con una certa dose di umiltà da parte di tutti, donne, uomini, istituzioni laiche e religiose.
E questa umiltà di fronte a tanta grandezza e a tanto mistero che mi spinge a non volere fare polemica, ma a voler discutere anche con chi sento lontano da me. E a cercare una mediazione, se non posso trovare un accordo.

Oggi quello che ci separa è l’idea della vita. Tu parli della vita come se fosse sempre uguale, con una dignità ed un’ importanza assoluta, già data e affermata nel mondo in cui viviamo. Con l’unica grande, terribile eccezione del feto. E invece non è così.
Oggi la vita di un ricco vale di più di quella di un povero e infatti i poveri vivono di meno. La vita di un vecchio vale meno di quella di un giovane. La vita di una donna meno di quella di un uomo. Per i fondamentalisti islamici la vita di un infedele non vale niente. Per molti nel nostro civile occidente la vita di un bambino palestinese ha un valore trascurabile. La vita di un militare vale, per patto istituzionale, meno della vita di un civile. Gli oppressori considerano nulla la vita degli oppressi.
Chi è oppresso si sente giustificato nell’eliminare la vita dell’oppressore che fino ad allora ha impedito la sua. Non sono state questo le grandi rivoluzioni? E chi giustifica la guerra non considera la vita del suo nemico inferiore alla sua e ai principi per i quali combatte? Insomma la vita ha valori diversi ed è ordinata secondo gerarchie che cambiano e non sempre in meglio. A cominciare dalla gerarchia che noi tendiamo colpevolmente a rimuovere che è quella fra la vita umana e la vita animale. Quanto dolore provoca nel nostro mondo la presunta superiorià della vita umana?
Io so che viviamo in un mondo così. La mia concretezza e il mio realismo mi fanno misurare ogni giorno quelle gerarchie così forti nel valore della vita, persino con una dose di ossessione, la mia utopica aspirazione all’eguaglianza non è che la volontà o il sogno ad un valore della vita più universale e condiviso. Che abbracci anche – e mi piacerebbe che fosse così – anche quella vita in potenza che è il feto.
Tu – mi pare – accetti e non ti curi di quelle gerarchie e di quelle ingiustizie sul valore della vita, ritieni inevitabile la guerra e fissi la tua battaglia, indirizzi la tua utopia, sull’eguaglianza della vita del feto, su quella che io definisco vita in potenza. E ti importa poco che quella affermazione possa portare ad una ulteriore gerarchia che cancella il corpo femminile, riduce la metà del genere umano a puro contenitore.
Per te questo è un fatto così trascurabile che non merita neppure la ricerca di una mediazione. Io, invece, in questi giorni ho pensato che le donne una nuova mediazione devono trovarla, che un nuovo patto deve essere stipulato fra noi, la scienza e lo Stato, un patto nel quale abbiamo molto da pretendere e nel quale molte cose possono essere ridiscusse.
Oggi la scienza mi dice che quella vita che è dentro di me può essere autonoma dopo la ventiduesima settimana. E’ una cosa di cui devo tener conto e su cui posso pensare di modulare un nuovo patto con lo Stato. Posso pensare di cedere parte della sovranità del mio corpo, per affidarla ad altri, alla comunità e a chi la rappresenta dal momento che so che quella vita potrebbe esserci anche senza il mio corpo. Ma pretendo che i risultati scientifici vengano utilizzati anche per difendermi da una maternità indesiderata, che la società non mi lasci sola e continui a farsi carico di questo.
Voglio che le donne che abortiscono abbiano comprensione e compassione. Molto di più di quella che hanno avuto finora. E ancora voglio che la maternità sia difesa davvero in una comunità pronta ad accoglierla nella concretezza della vita quotidiana e non nella retorica dell’inno alla vita.

E naturalmente voglio anch’io lottare per restituire alla maternità il suo valore. Non mi piace per nulla una società in cui un uomo ed una donna decidono che è meglio interrompere una gravidanza perché prima di avere un figlio bisogna finire di pagare le rate dell’automobile. Quella vita possibile è comunque infinitamente più importante di un’automobile. E mi fa un po’ schifo un mondo in cui l’automobile sia più importante di un figlio.

Ma quella donna, non la disprezzo. Vorrei aiutarla a riconoscersi meglio, vorrei che si rendesse conto di quello a cui è costretta a rinunciare, dell’inganno a cui è sottoposta. Posso farlo? Si posso farlo se parto dalla sua libertà. Se non penso neppure un attimo di cancellarla. Altrimenti – è inevitabile – difenderà (e io sarò con lei) la pur limitata e ingannevole libertà che ha e, naturalmente, l’automobile.
Forse, caro Giuliano, mi sbaglio, ma ho l’impressione che se discutessimo del che fare, insieme a molto disaccordo troveremmo qualche punto di accordo su una questione vera e importante che si ripropone in termini nuovi. Non cercare quella mediazione, ma accontentarsi di accusare, inveire, cercare facili consensi, a volte privi di motivazioni e di parola, come a volte mi pare che tu stia facendo, sia pure con tutta l’intelligenza e la passione che possiedi, questo sì mi sembra un peccato.

Ciao

Ritanna Armeni

Ho tenuto questa lettera ferma per una settimana. Non so perché. Adesso mi accorgo che è lunghissima, ma non ho voglia di tagliare e limare.

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