L’ultima delle ormai numerose versioni della “moratoria” sull’aborto inventata da Giuliano Ferrara, pubblicata sul Foglio di sabato 5 gennaio, si intitola “5 pezzi facili”, come il film di Bob Rafelson del 1970. Forse Ferrara è davvero perseguitato da un fantasma sessantottesco. In quel film il maschio in crisi Jack Nicholson seduceva una raffinata pianista bionda eseguendo un preludio di Chopin tecnicamente “facile” ma di grande bellezza sensuale. Lui era ben consapevole dell’ambiguità comunicativa che creava con quell’esecuzione.
I “pezzi” di Ferrara li trovo invece segnati da supponenza linguistica e ideologica, e assai poco seduttivi, malgrado il direttore del Foglio in questi giorni abbia suonato registri diversi, compreso quello di presentarsi come un uomo di buona volontà, che si preoccupa del valore sacro della vita e che non vuole certo criminalizzare la libertà di scelta della donna.
Tuttavia i linguaggio è sempre rivelatore, e secondo me, in questo caso rivela soprattutto una cosa: Ferrara da voce, più o meno consapevolmente, a una diffusa frustrazione maschile rispetto a un mondo che in questi decenni – proprio dopo la rivoluzione degli anni ’60 e ’70, nella sua parte più vera e profonda una rivoluzione femminile – è stato sovvertito dalla libertà delle donne.
Che la libertà di scelta nella procreazione sia di fatto fuori dalla portata regolatrice di una cultura patriarcale che non è più riconosciuta dal senso comune femminile (e, ne sono convinto, ormai anche da un numero sempre maggiore di uomini), questo è il fatto che risulta insopportabile. E’ in un certo senso la situazione più estrema e radicale di questa libertà, perché è vero che in questo nuovo mondo è riconosciuto alla donna il potere, certo sempre drammatico, di rifiutare una maternità non voluta, di eliminare una possibilità di vita che si è affacciata nel suo corpo. E non c’entra nulla qui l’idea dell’aborto come “diritto”, aberrazione che appartiene forse a alcune frange minoritarie.
Se Ferrara e i suoi seguaci si limitassero a dire: facciamo, prima di tutto in quanto eventualmente padri, tutto il possibile per accogliere queste vite potenziali, per far sì che il concepimento sia sempre consapevole e voluto, sforziamoci di costruire un mondo in cui dare alla luce un figlio sia una cosa desiderabile da parte di una donna, ci sarebbe poco da obiettare e forse molto con cui convenire. Ci sarebbe tanto più da convenire se venisse nominata anche l’esigenza – così maledettamente banale – di usare tutte le dovute precauzioni, in particolare da parte maschile, quando si fa l’amore senza desiderare il concepimento. Perché è questa poi la vera causa – mai citata – dell’eventualità dell’aborto. (A meno che Ferrara non si sia convertito alla tesi paolina che il sesso sia lecito solo per il concepimento)
Ma in questi pezzi cosiddetti facili ecco che rispunta non un atteggiamento e un linguaggio sinceramente amorevole nei confronti di questa vita umana potenziale e, ancor più, della vita già in atto della madre che deve aver cura del proprio doppio essere fino al parto e in tutto il tempo successivo per crescere la propria creatura.
Rispunta l’ansia tipicamente maschile di stabilire regole e leggi e principi astratti, nel nome di un universalismo solo a parole tale, perché informato, anche nella lettera, alla prevalenza della propria parzialità oggi spodestata. Infatti l’articolo della dichiarazione dei diritti dell’uomo che Ferrara sogna di manomettere già nomina – e tanto basta, naturalmente – il diritto di ognuno “alla vita”: ma lui vorrebbe aggiungere “dal concepimento fino alla morte naturale”, rimuovendo così la realtà, che sta sopra e al di là della legge, che dal concepimento alla nascita c’è di mezzo il corpo, il cervello, l’amore, la libertà, di una donna. Ma l’autore del “pezzo facile” in fondo, per cultura e educazione, lo sa che le cose stanno in questo modo. Allora non trova di meglio che inventarsi anche un “articolo bis”, in cui, scendendo dai cieli religiosi, illuministici, giudaici, kantiani (qui si tratta di rifondare l’Occidente, naturalmente) ad una prosa giuridico-burocratica da aula di pretura, scrive che “il diritto alla vita del concepito deve essere sempre bilanciato con il diritto alla salute fisica e psichica della madre”.
Ecco la verità non tanto segretamente sognata: relegare nuovamente in un luogo secondario, in un “articolo bis”, il ruolo della donna. Restaurare la perduta autorità del “nome del padre”. Grazie alla miseria inattuabile di un “bilancino” tra gli imponderabili della vita di chi deve nascere e la vita di chi quella stessa vita nuova alimenta, rende possibile.
Tutta questa faccenda della moratoria può anche darsi che intercetti un genuino amore per la vita e il sentimento – che condivido – della sua sacralità, soprattutto da parte di persone credenti, ma a me sembra più che altro il sintomo di qualche altra cosa di assai critico, che definirei una irrisolta “questione maschile”. Non mi sembra un caso che, a giudicare dalle lettere pubblicate dal Foglio, la maggioranza di adesioni entusiastiche venga da maschi.
La Chiesa cattolica, penso commettendo un ennesimo errore, si è accodata a questa campagna con un linguaggio però più sobrio, persino nelle parole di Ruini. Ciò che colpisce nelle dichiarazioni dell’ex presidente della Cei, e poi, con forse maggiore cautela, del suo successore Bagnasco, è un improvviso credito accordato al “progresso scientifico” quando questo rende più facile e più rapida la separazione della vita del feto da quella della madre. Vedo il rischio di un grave rimosso: il fatto che il corpo della donna, e quindi la sua volontà, venga avvertito non come il mezzo indispensabile, e per fortuna ancora così misterioso, per dare forma alla vita umana, ma come un ingombro di cui si farebbe – scienza permettendo – volentieri a meno. Alla faccia della natura, più o meno divina, almeno fino a come oggi la conosciamo.
E’ una strada senza uscita – mi pare – anche per la Chiesa che, pur avendo mostrato una certa consapevolezza del problema, non ha ancora saputo affrontare e risolvere davvero la stessa questione che le rende così difficile sviluppare la propria azione in un mondo cambiato dalla rivoluzione delle donne.
E’ , ancora una volta, una specifica “questione maschile”.