Rosa / Nero

uomini e donne nella cronaca di tutti i giorni

Donne, politica e antipolitica

7 Dicembre 2007
di Mariella Gramaglia

Manco dall’Italia da una manciata di mesi e, non so se per via dello sguardo reso più vigile dalla distanza, oppure della grande accelerazione dei processi sociali, ma, al mio ritorno, ho avuto la netta sensazione che qualcosa di molto doloroso sia successo e che abbia influito anche sulla manifestazione femminista di sabato scorso.
Ha ragione Paolo Franchi: troppo comodo definirlo come “il vento dell’antipolitica” e tutelare così le proprie certezze e le proprie abitudini. Si è spezzato quel meccanismo che permetteva di distinguere e scegliere: un insieme di privilegi, di afasie sulle questioni che contano, di narcisismi mediatici, di intemperanze puerili e connivenze castali, ha reso l’espressione “sono tutti uguali”, che una volta stava solo sulla bocca dei peggiori qualunquisti, senso comune di molti onesti cittadini.
Perché mai le donne, o molte donne, come giustamente Letizia Paolozzi ci invita a precisare, dovrebbero fare eccezione? Perché mai dovrebbero guardare chi appartiene al loro sesso e calca la scena pubblica con occhi più benevoli e accordare loro una diversa fiducia? Siamo sicure di essercelo meritato (mi permetto la prima persona plurale per aver fatto politica per molti anni), di aver proposto e testimoniato – soprattutto testimoniato: c’ è un disperato bisogno di testimonianze in questo paese – una concezione della politica che incoraggiasse le altre a fidarsi di noi e magari persino ad affidarsi a noi?
Che centinaia di migliaia di donne si ribellino alla violenza, che svuotino di senso, forti dell’esperienza concreta propria e delle proprie simili, l’equazione xenofoba “immigrato = violentatore”, mi sembrano valori democratici immensi. Così come che, intemperanze a parte, a nessuno sia stato torto un capello, ben diversamente da ciò che accade nella violenza degli stadi, citata, secondo me con un’analogia impropria, da Giovanna Melandri.
Questo vuol dire che tutto, invece, va bene nel “movimento”? Quello che a noi, mature cittadine di molte battaglie, può apparire ripetitivo, é in parte fisiologico dato che “il mondo nasce ogni volta con colui/colei che nasce al mondo”, in parte frutto di una catena di relazioni e di memoria condivisa che si è interrotta per un profondo tabù nei confronti dell’esercizio della leadership di movimento che ci ha accomunate tutte, quelle che in seguito hanno scelto la politica istituzionale e quelle che non lo hanno fatto. E’ la cosa che mi riesce più difficile far capire, nel mio lavoro di oggi, alle mie amiche indiane: loro considerano la rete di leader di movimento che hanno costruito nel paese, anche nei villaggi più remoti, un patrimonio preziosissimo di cui non va sprecato neanche un granello. Come le madri buone di Winnicott, lasciano andare e richiamano a sé le più giovani, in una lunga danza di andate e ritorni che prepara la via di un’autonoma autorevolezza. Ho visto le migliori menti femminili delle mia generazione talvolta severe e talvolta iconoclaste e, se ho un rimpianto, è di non aver saputo insegnare quella danza verso la libertà.
Mi sono chiesta cosa avrei fatto se, nella circostanza della manifestazione, avessi ancora avuto responsabilità istituzionali. Forse avrei cercato di distinguere “separatismo” da “atteggiamento separativo”. Sicuramente oggi, quando non c’è più una pratica di massa costante di molte donne in luoghi separati, la semplificazione “separativa”, e dunque aggressiva, può avere in un singolo evento il sopravvento. Dunque mi sarei occupata, dichiarandolo lealmente, solo di uomini. Li avrei convocati nel maggior numero possibile. Capi di associazioni, presidi di scuola, professori di università, leader di comunità straniere, organizzatori di volontariato e li avrei invitati a indossare quel giorno una fettuccia o un bottone nero sul risvolto della giacca e poi decidere liberamente se andare alla manifestazione oppure ovunque volessero. Lo si faceva nell’ Italia di un tempo per testimoniare il lutto per una persona cara . E le donne, non di rado, agli uomini sono care. Imparino a testimoniarlo e a essere di insegnamento ai molti loro simili che, nella loro incommensurabile aridità, ne hanno bisogno.
Questo articolo è già uscito sul “Riformista”

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