Il coordinamento delle parlamentari R.C./S.E.(Rifondazione comunista e Sinistra Europea) ha recentemente invitato a discutere su questa domanda: “Perché parlate d’altro? Dialogo su violenza sessista, media e politica”.
Io continuo a pensare che il giornalismo italiano sia segnato dal grande disordine politico di questa società in eterna transizione. D’altronde solo in questo nostro paese, credo sia presente così ossessivamente la professione, anzi la specializzazione del retroscenista. Il quale peraltro si deve inventare ogni giorno un pezzo anche se non ha (per la giornata) nemmeno una battuta del personaggio del quale costruisce il retroscena.
Tuttavia io sono ottimista e penso che la domanda di unzione mediatica stia indebolendosi, che si comincino a notare fenomeni di stanchezza e di rigetto. Questo non significa che il cambiamento sia a portata di mano.
Ma quando si parla di media bisogna, prima di tutto, fare una distinzione tra la televisione, per la quale vale ancora la vecchia definizione di Bourdieu, che la considerava un formidabile strumento di mantenimento dell’ordine simbolico, e la carta stampata dove è comunque necessaria una diversificazione dell’offerta. Dunque delle pagine, degli articoli, dei temi e dei soggetti.
Anche se i temi e i soggetti sono spesso trattati con grande conformismo.
Basta vedere cosa succede quando ricompaiono gli operai. Chi sono gli operai che hanno fischiato durante i funerali di Torino? Chi erano gli operai che si facevano un turno lunghissimo e poi andavano a comprare i regali per la famiglia? I media non lo sanno. E peggio ancora, quando i Tir “mettono in ginocchio“ il cittadino consumatore, quello diventa il titolo delle prime pagine, quello il titolo di apertura dei tg. Emerge un fenomeno di cui si ignorava tutto, anche se forse era in incubazione da mesi, da anni.
Altro esempio incredibile di questi giorni. L’incapacità assoluta dei giornalisti di darci conto di ciò che l’emendamento sull’omofobia diceva. Per tre giorni nessuno ne ha scritto. Poi è comparso il testo dell’ emendamento (almeno io l’ho letto sul Mattino) e quindi si è cominciato a ricostruire il pasticcio con difficoltà enormi per il lettore medio che si trova adesso di fronte al rompicapo logico-politico di un emendamento sbagliato ma che (così pare) andrebbe votato, per essere poi riscritto e infilato da qualche altra parte.
Vengo alle donne.
Intanto: di cosa parlano i media quando si dedicano al nostro sesso? Certo, alla violenza sessuale, ai fatti sanguinosi, e poi all’araba fenice della parità. E dunque i media sono attratti da una narrazione dove la donna è vittima. Solo vittima.
Come se, senza rendersene conto, la differenza originaria fosse ancora considerata una inferiorità incancellabile.
Provo a prendere l’argomento da un altro capo: cosa vogliono comunicare le donne?
Una politica, certo. Ma ho l’impressione che siamo sempre lì, alla solita altalena tra femminismo dell’oppressione e femminismo della differenza.
Naturalmente, se di oppressione femminile si tratta, allora, le donne vanno considerate un movimento rivendicativo, che si sceglie degli obiettivi e poi li consegna affinché le istituzioni li traducano in legge. E allora è questione di diritti, diritti, diritti. Però io non credo che i diritti modifichino la coscienza.
Come non credo che le scelte sessuali individuali possano tradursi in una politica delle donne. Ne ha scritto giustamente Ida Dominijanni sul Manifesto. La costruzione, è avvenuto negli Stati Uniti, di un mondo separato e parallelo ispirato, appunto, alle proprie scelte sessuali, non mi convince. E soprattutto si è dimostrata poco utile politicamente se non per modificare, probabilmente, le spine omofobiche attraverso il bacio di Ellen DeGeneres o le dichiarazioni di Sharon Stone.
Infine, che fare per intervenire nel discorso e nello spazio pubblico?
Esistono siti, luoghi delle donne, riviste, seminari, incontri.
Ma con i media, con le grosse testate giornalistiche come ci comportiamo, dal momento che hanno scoperto che “il lettorato“ femminile fa vendere? Siamo disponibili a mediazioni anche faticose, a evitare quel tono esoterico che spesso assumiamo quando si tratta di comunicare la nostra politica?
Questo, comunque non basta.
Le contraddizioni sono forti nei media. E non dipendono dalla presenza o meno di giornaliste brave, di capiservizio crudeli, di direttori ottusi. Di giornaliste assai brave ce ne sono. Hanno battuto i colleghi maschi in coraggio durante le crisi internazionali. Ai maschi, anzi, hanno lasciato in eredità la pashmina (vedi Giulio Borrelli, Franco di Mare e altri giornalisti). E neppure il difetto viene dalla compagnia di giro femminile che riempie pagine e teleschermi, non solo soubrette e veline, composta di tuttologhe, rissose, trasversaliste, opinioniste che discettano su famiglia, amore, e buoni sentimenti.
Il problema è che i media non si attrezzano, non hanno un personale capace di studiare, capire, aggiornarsi, azzardare interpretazioni. Nella migliore delle ipotesi si contentano di commenti a posteriori affidati a “firme” sperimentate, ma forse ancorate a un’immagine femminile stereotipata, e comunque distante dalla densa contraddittorietà degli eventi della cronaca.
L’altro giorno sul “Corriere della Sera“ c’erano due pagine sulle Toghe che diventano rosa. Due pagine sulle donne magistrate. Sui cambiamenti di una rincorsa lunga 44 anni. Nello stesso giorno, altre due pagine sul rapporto Censis e la “poltiglia“ italiana. Sulle giovani donne che sempre meno trovano lavoro. E poi: aumentano gli italiani che leggono libri. Per la prima volta: dal 55,3 del 2006 al 59,4 del 2007. Sono le donne che fanno alzare i picchi di vendita: la percentuale di lettrici è passata dal 53, 1 al 61 per cento.
Mi piacerebbe vedere se questi dati tanto contradditori si riescono a incrociare.
Se questo non succede, i temi che riguardano le donne si restringono, e i media continuano a vederci solo come vittime. Se non ci consideriamo tali, dobbiamo imparare a interloquire e contrattare con chi confeziona quotidianamente immagini che non ci corrispondono.