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i bassifondi di Bombay

23 Novembre 2007
di Bia Sarasini

«Gli umani vivono nelle città come pesci nell’acqua. Già oggi la maggior parte della popolazione mondiale vive negli spazi urbani. È un’evoluzione della specie, un destino biologico». È con questo spirito, affascinato e orripilato nello stesso tempo, che lo scrittore e giornalista Suketu Mehta, indiano residente a New York, ha scritto la “biografia” della città dove è cresciuto, Maximum city. Bombay città degli eccessi (Einaudi, 546 pagine, 19,50 euro). In effetti Bombay, o Mumbai, questo l’attuale nome ufficiale della città, è il prototipo dell’incubo urbano. La grande Bombay ha circa 19 milioni di abitanti, tra breve la popolazione sarà maggiore di quella dell’Australia, in alcuni punti del centro storico la densità è di 386 250 persone per km quadrato, la più alta del mondo. Il territorio della città-isola è in continuazione strappato al mare, sull’esempio degli inglesi, che unirono le sette isole originarie. Un territorio distribuito in modo ineguale, ricorda Suketu Mehta «due terzi dei residenti si affollano nel 5 per cento della superficie totale, mentre gli altri monopolizzano il restante 95 per cento», una città che da sola versa il 38 per cento del gettito fiscale dell’intera India.

Suketu Mehta ha vissuto a Bombay fino a 14 anni: «Una brutta età per spostarsi» mi dice a Roma, vestito di nero come gli intellettuali e gli artisti di tutto il mondo: «Non sei più un bambino, ma neanche un adulto, lo strappo è stato molto doloroso». Così doloroso da avergli cambiato la vita: «Ero destinato a diventare un mercante di diamanti, come mio padre, i miei zii. Quando ho finito di studiare mio padre mi ha detto, scegli dove vuoi aprire un ufficio. Io però avevo bisogno di pensare chi ero, cosa avevo lasciato, se era possibile tornare. Per questo sono diventato scrittore, perché sono stato portato via da Bombay».

Il punto è che nel 1998, quando si decide a lasciare New York con moglie e figli per tornare nella sua città, Bombay è diventata Mumbay.

Cioè la città cosmopolita, aperta a tutte le religioni compresi zoroastriani e giainisti, incline ai commerci più che alle dispute teologiche, dove si parlano svariate lingue, è stata attraversata, come tutta l’India, da un’ondata di violento nazionalismo induista. Nel 1993 in città ci sono stati tumulti violenti, che facevano seguito alla distruzione della moschea di Ayodhya nell’Uttar Pradesh, che secondo molti indù era stata costruita dall’imperatore moghul Babar sul luogo natale del dio Rama. Un’offesa intollerabile. Nella prima fase dei disordini, nel gennaio 1993, i musulmani erano stati identificati e massacrati nei loro quartieri da gruppi di facinorosi, poi il 12 marzo lo sterminio generalizzato, l’esplosione di dieci bombe piazzate in due diverse zone della città. In totale ci furono circa 1400 morti.
Così il libro di Suketu Mehta è prima di tutto un viaggio all’interno del Shiv Sena, il partito di estrema destra di ispirazione induista fondamentalista fondato da Bal Thackeray nel 1966 proprio a Bombay, al governo della città dalla metà degli anni ottanta. Eppure non sono la politica, le teorie politiche, il centro della scrittura di Suketu. Lui non chiede come si arriva al potere, lui domanda: «Che aspetto ha un uomo mentre brucia?».

È quello che ha chiesto a Sunil, nel dicembre del 1996, mentre era in città come inviato da New York proprio per scrivere di quei disordini: «Te lo dico io. Io c’ero» gli ha risposto Sunil. «Un uomo che brucia si alza, cade, corre come un matto, cade, si alza, corre» E poi: «È orribile. Il corpo trasuda olio, trasuda acqua, bianco, bianco, tutto bianco».

Così Suketu, forse aiutato dal suo aspetto di ragazzo, si addentra nei bassifondi della sua città con la capacità incredibile di farsi raccontare di tutto. Anche da gente come Sunil che quando il Sena va al potere, nel Maharastra, ecco dove l’ha portato bruciare vivo il venditore di pane musulmano, diventa un funzionario pubblico, punto di riferimento dei cittadini. Anche se, scrive Suketu, essere un assassino non definisce interamente un essere umano: «Ciò lo distingue da quelli che non lo sono; ma non è tutto. Può anche essere un padre, un amico, un patriota, un amante». E assassini, nella sua ricerca, Suketu, ne ha incontrati molti: «A un certo punto» dice « era diventata un’ossessione. Avevo bisogno di sapere, come ci si sente dopo aver ucciso un uomo? Il punto è che dopo aver passato tutta la giornata con questa gente che continuamente è messa davanti alla vita e alla morte, la vita reale, normale mi sembrava senza senso. Mi sono accorto che ero sull’orlo di un baratro. Non riuscivo più a parlare di cose banali, quotidiane come l’assicurazione, non mi interessavo più alla vita familiare. Ho dovuto staccare».

Così nel 2000 Suketu è tornato a New York con la famiglia, dove finalmente ha completato il libro, uscito negli Usa nel 2004. In effetti ha rischiato, non solo quando si avventurava da solo in appuntamenti con killer professionisti, ma anche nel diventare loro amico. Un rischio dell’anima. Se ne è accorto quando uno dei suoi interlocutori, quasi un amico, come regalo gli ha offerto di far fuori chiunque lui volesse. «Sono un borghese, cresciuto in un mondo borghese» mi dice «non sono mai stato un ragazzo di strada. Fino a quando non sono tornato a Bombay, non avevo mai incontrato il mondo sotterraneo». Poliziotti che torturano delinquenti, e molti ne fanno fuori, convinti di agire per il meglio, killer che eseguono omicidi a pagamento, una città corrotta e corruttrice, che con il denaro aggiusta ogni possibile problema. Eppure una città sicura, tranquilla, dove non ci sono problemi a girare per strada la sera.

Quasi una sorta di Dickens contemporaneo, osservatore di catastrofi urbane, Suketu Mehta racconta personaggi di cui a volte si innamora. Come Monalisa, il nome che ha scelto per una ballerina di beer bar venerata da un’infinita schiera di ammiratori, a cui dedica molte pagine del suo libro: «Non riuscivo a capire come mai tutti questi uomini spendessero tutti quei soldi, senza avere in cambio quasi nulla». Perché le ballerine dei beer bar danzano come nei film hindi di Bollywood tutte coperte, nessuno le può toccare, non c’è niente che somigli ai bar occidentali di lap dance. Monalisa era la più bella, la più attraente, la più desiderata, anche la più intelligente, anche se nonostante l’aiuto di Suketu non è riuscita a diventare una modella, come difficilmente potrà diventare un’attrice: «Non ha quel tipo di bellezza», commenta lo scrittore.

A creare un alone mitico, intorno al libro di Mehta, un’immersione nella vita oscura, deliquenziale di una metropoli per molti spetti analogo al viaggio dentro Napoli che Roberto Saviano ci fa compiere in Gomorra, è che in breve tempo il paesaggio urbano è cambiato. Ora i beer bar non esistono più, sono stati chiusi per una campagna di moralizzazione voluta dai partiti induisti: «Ho sentito Monalisa l’ultima volta un anno fa» mi risponde. «Ha due case, una per sé e una per la madre, e una relazione stabile con un importante uomo pubblico. Sono sicuro che se la caverà, anche se il suo mondo è sparito».

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