Il mio primo incontro concreto con la cultura jain ad Ahmedabad è avvenuto nel luogo meno mistico del mondo: in pizzeria. Le pizzerie, italiane o similitaliane, sono di gran moda tra i giovani e, nel menu, oltre alla lista prevedibile di pizze margherita, ai peperoni, al formaggio, ho trovato un oggetto misterioso, la pizza jain. “Senza aglio né cipolla”- mi ha spiegato il cameriere. Perché? “Perché impuri”. Non impuri per l’odore che possono lasciare in bocca o per gli effetti sullo stomaco, come in un primo tempo ho pensato. Impuri perché per servirsene e nutrirsene bisogna scavare la terra e dunque rischiare di uccidere insetti, vermi e altri microrganismi.
La non violenza fino al limite estremo: ecco il cuore della fede jain, due per cento scarso degli indiani, ma cultura indianissima, quintessenza della mitezza come virtù attiva, custode della rigorosa cucina vegetariana cui ancora il quaranta per cento degli indiani si attiene, scuola di mistici da duemila e cinquecento anni e culla, da tempo immemorabile, di un’ottima e agiata borghesia commerciale, soprattutto nel mercato dei diamanti e dei gioielli, economicamente fortunata anche perché stimata da tutti per la sua onestà a prova di bomba.
Ad Ahmedabad e nelle città del Gujarat, ma anche a Mumbai e nel Maharashtra (l’altro stato dove i jain hanno un grande peso), se ci si alza presto alla mattina, verso le sei, quando gli altri indiani sono ancora casa o a letto e il caos del traffico ha tregua, non è difficile incontrare le monache jain, spesso giovanissime che, avvolte nel sari bianco, a piedi nudi, fanno precedere ogni loro passo dallo scopino che ha il compito di preservare ogni forma vivente dall’inavvertita violenza del loro incedere. Si avviano al tempio, ma non sono le sole. Uomini prestanti o attempati, in doti di lino lindi e luminosi come pezzi di cielo, le seguono per la stessa via. Quasi sempre sono laici. Più tardi si prenderanno cura dei loro piedi che hanno camminato nudi sull’asfalto, indosseranno un completo e un buon paio di scarpe e tireranno su la saracinesca dei loro ospitali negozi di Mithakali Road e dintorni.
Come racconta assai bene Suketu Mehta, in “Addio al mondo”, nel capitolo dedicato ai jain di Maximum city (gli estremi si possono toccare in una cerimonia di distacco e di conversione alla vita monastica che è anche un specie di “potlach” di immenso sfarzo, in cui il congedo è una grande esibizione di potere (pranzi favolosi, lanci di riso misto a perle, donazioni ai poveri) e una sorta di sfida di un miliardario in dollari che non vuole essere messo ai margini con il passare degli anni.“Ti farai congedare o sarai tu a prendere commiato?”- si chiede.
Nulla a che vedere, dunque, con la devastante immagine di fanatismo dipinta da Philip Roth attraverso il personaggio di Merry, la figlia dello “Svedese”, in Pastorale americana (Una barbona inebetita, il volto oscurato dal piede stracciato di una vecchia calza di nailon, lascia che la sporcizia la invada “per non far del male all’acqua” e non si muove nel buio per non costituire patimento per le più basse forme di vita, dove le anime imprigionate più percepiscono e più soffrono. La ragazza è un’ex terrorista, ha ucciso, e nel suo delirio che non conoscerà il riscatto di alcun nuovo equilibrio, sembra cogliere a tentoni che la società è interdipendente, è un corpo, e che, della ferita che lei le ha inferto, può sanguinare per intero.
Per noi occidentali la metafora più astratta del corpo può arrivare solo alla dimensione sociale. Il divino è, per definizione, altro dal corpo, salvo che nella rappresentazione mistica del corpo di Cristo, che resta comunque persona e non dimensione metafisica. Dio si affaccia dall’alto dei cieli, antropomorfico come un padre benedicente, nelle rappresentazioni più ingenue. E’ “in cielo, in terra, in ogni luogo”, ma altro dalla materia, secondo la dottrina. Per i jain (ma in varie forme per diverse correnti della cultura indù) universo e divino coincidono in un grande corpo di cui noi abitiamo le smisurate membra, le viscere, la mente, i piedi, le orecchie, a seconda del nostro destino e dei nostri meriti o demeriti nelle precedenti vite. Così, in vita come in morte, la forza dell’interdipendenza sovrasta il nostro povero ego, poco più importante di una molecola d’acqua, che è bene non far soffrire (è vero, non è un parto della fantasia di Philip Roth) infliggendole bracciate troppo energiche quando si nuota.
L’incanto e lo splendore delle costruzioni architettoniche e artistiche dei jain smentiscono un altro pregiudizio occidentale: che efficienza, determinazione e rapidità siano sinonimi di buone realizzazioni. Il trionfo dell’architettura jain si sviluppa tra il mille e cento e il mille e cinquecento con un lavoro lentissimo perché, in ogni cantiere, muratori e manovali dovevano assicurare alla salvezza ogni forma vivente avvistata prima di procedere allo scavo delle fondamenta o ad erigere le mura.
Indimenticabile, nella mia esperienza, il pellegrinaggio a Palitana nel Gujarat del Sud, a Shatrunajaya, uno dei santuari jain più sacri dell’India: tre ore di salita all’alba, tra le monache a piedi nudi, ma anche fra le famigliole di ceto medio con macchina fotografica e ragazzini al seguito. In cima all’altopiano un’aria limpida da montagna,una nervatura fortificata e 863 templi, incastonati gli uni negli altri come un puzzle a perdita d’occhio. Tutte le figurazioni si mescolano, non solo tra i vari tipi di devoti, ma tra le immagini sacre. All’esterno dei templi le rappresentazioni sono quelle classiche della tradizione induista, da cui i jain, diversamente dai buddisti, non si sono mai separati: dei irati, dee dalle invidiabili curve, forme danzanti, elefanti sacri, incontri d’amore e di caccia. Insomma tutto il pantheon politeista e sanguigno della tradizione indù, cui il devoto più semplice o più primitivo si rivolge “per ottenere”: una grazia, la guarigione da una malattia, ma anche denaro, successo. amore, figli.
All’interno le forme ieratiche dei ventiquattro Tirthankara: tutti scolpiti in alabastro bianco, fermi nella posizione yoga o in piedi con il corpo eretto e le braccia abbandonate all’indietro, i Tirthankara, o traghettatori, o guru, bianchi e innocenti persino nel sangue che circola nelle loro vene, non hanno nulla da dire o da dare. Sono silenzio puro, al di là della portata delle preghiera umana.
A Taranga, nel nord del Gujarat, quasi al confine con il Rajasthan, ci si inerpica fra colline pietrose per giungere e un altro splendido tempio jain del mille e duecento. Un corteo di scimmie e piccoli cinghiali si affolla all’esterno, ai piedi di una porta scolpita da elefanti danzanti. All’interno, la statua di Mahavira, il guru fondatore della religione, contemporaneo del Budda, ma ventiquattresimo rispetto ai suoi predecessori mitologici: Mahavira è in piedi, corpo di alabastro bianco, occhi di madreperla e opale nero, mammelle e ombelico in smalto rosso, in oro i chakra, i punti vitali secondo la tradizione yoga. Le donne (anche le laiche) onorano il guru con carezze leggere,intingendo le dita in un piatto d’olio. Hanno tutte la bocca coperta. Uno splendido ragazzo sottile, un po’ discinto in un doti immacolato, le aiuta: si muove con morbidezza femminile e porta sulla spalla una borsa rajastana rosa shocking tempestata di specchietti scintillanti. Una perfetta icona gay, se fosse visto a San Francisco.
Ma non è impossibile che da San Francisco venga. Mentre siedo sulla pietra fresca, penso e osservo, mi si avvicina un distinto signore: è un ingegnere di Chicago, è di famiglia jain, è venuto in India a trovare i genitori che non vogliono espatriare e li ha accompagnati al tempio.
Con lui raggiungo, più in alto sulla montagna, il monastero. Qui il culto è più severo: nessuna divinità indù, i Tirthankara, privi di qualsiasi ornamento, brillano nella purezza dell’alabastro bianco. E’ qui raccolto un gruppo di monaci vaganti completamente nudi: vengono dalla foresta dove normalmente abitano e i devoti danno loro sollievo. Li nutrono, li lavano con un panno, puliscono loro la bocca dopo averli imboccati come fossero neonati. Nulla possono desiderare e possedere, ma solo accettare il dono altrui. La loro nudità è eterea, innocente, infantile. Non provano alcun imbarazzo, neanche per l’imprevista presenza di una straniera. Il mio amico ingegnere, invece, mi osserva e palesemente teme il mio giudizio. Mi spiega la purezza della nudità, come abbandono e resa dell’io, nella sua religione. Lo fermo. Vengo da una cultura dove la nudità, tranne quella del neonato, o è sesso, oppure è umiliazione sadica, talvolta estrema. Considero questo sguardo limpido verso il corpo e la sua fragilità uno dei regali dell’India. Al congedo mi segnala un sito internet jain “globale”
Le mura bianche sullo sfondo dei boschi verdi, le sculture da ricamatori del tempio di Chaumukha Mandir a Ranakpur, sulla strada che unisce Udaipur a Jodpur, forse non hanno l’uguale dal punto di vista della bellezza. Ma l’atmosfera di devozione del Gujarat non c’è: le stelle di Bollywood vanno a cacciare i cerbiatti di frodo in questi boschi un tempo sacri e qualche volta, con grande gioia degli ambientalisti, vengono anche pizzicate, torme di turisti si affrettano a scattare mentre l’autista del torpedone si sbraccia dalla porta del tempio.
Il mistero raffinatissimo della religione jain richiede tempo, discernimento, finezza filosofica. Doti che non mancano a un grande studioso dell’India, Herinrich Zimmer, , che ha dedicato loro un densissimo capitolo del suo “Filosofie e religioni dell’India”, Mondadori 2001. Per Zimmer il jainismo è una religione sostanzialmente atea. “Perché inchinarsi davanti a un’immagine se l’immagine non ne è consapevole?”- chiede l’allievo al maestro che lo incoraggia alla devozione verso i Tirthankara. “Perché l’immagine influenza la mente”- è la risposta del maestro.
Insomma una religione che comincia da dove Feuerbach, con il suo celebra aforisma, “non è dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea dio”, credeva di averle messo la parola fine. Dio non esiste, il mondo è il corpo di un gigante umano, eterno e non creato, né buono né cattivo, la “personalità”individuale, cui noi siano così legati che i nostri poeti la rappresentano integra anche nel mondo ultraterreno, non è che una maschera transitoria, labile e connessa con tutte le creature.
Ciò che resta, il cuore della vera fede jain, è la non violenza, la sconfinata compassione per ogni essere vivente, il desiderio ardente di non far del male, il sentimento di connessione a un prossimo senza confini né geografici, né biologicamente gerarchici. Tutto ciò può avere dei tratti di bizzarria
e di fanatismo, ma più spesso, come ho potuto sperimentare, di grande umanità e profonda, solidale intelligenza.