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Dee, eroine e teste rasate

6 Ottobre 2007
di Mariella Gramaglia

Nell’area di Napattinam, ma in tutto il Sud dell’India, l’aura della religiosità e dei suoi simboli ti accompagna sempre, come fosse il respiro dei luoghi. E le religioni si intrecciano e si mescolano in una strana comune koinè, fatta di devozione, talvolta di evidente superstizione, ma anche di apertura allo stupore verso il mondo e di autentica spiritualità.

Velanganni, il villaggio in cui vivo, che si stende nell’area di un chilometro dalla spiaggia alla foresta di palme, è dominato dalla sagoma bianca della “Nostra Signora della buona salute”, una chiesa cristiana iniziata a costruire dai portoghesi nel millesettecento e continuata poi, di guglia in guglia, con quel gusto dell’eccesso che eternamente tenta gli indiani. Accoglie qui migliaia di pellegrini da tutto il sud dell’India, ma non solo cristiani: il pellegrinaggio é anche rito dell’avvicinamento ed é festa di gruppi e famiglie. Una bianca signora cristiana vale una dea indù per quasi tutti, tranne che per i fanatici dell’Hindutva. Quando l’onda dello Tsunami si abbatté sulla spiaggia, nel 2005, era il giorno dopo Natale, la chiesa e gli spazi circostanti rigurgitavano di pellegrini e a questo si devono i tanti morti mai riconosciuti che, ignari, erano venuti a porsi sotto la protezione della Vergine. Lungo il percorso di bancarelle colorate che dalla spiaggia va la mare, piccoli dipinti popolari pubblicizzano un sorprendente servizio: la rasatura totale per signore. Le donne vi si sottopongono, o vi sottopongono i loro figli e figlie “per grazia ricevuta” e, solo chi ha avuto una certa consuetudine con le donne indiane e conosce il loro culto delle bellezza, della luminosità e della lunghezza dei capelli, può immaginare quale sacrificio sia. Un sacrificio che si ripropone identico, con i medesimi rituali, in quasi tutti i templi del sud dell’India, soprattutto quelli dedicate alle dee.

Già, perché i simboli femminili, di protezione, di fascino o di coraggio, non mancano in queste regioni.

L’immenso tempio di Madurai, quasi una città, con quattro cinte di mura e con un’intensità di commerci sociali, di oggetti, di colori , da frastornare chi non è ancora addestrato a cercare con pazienza le aree del silenzio e della meditazione e da fargli condividere il grido furioso di Cristo, “via i mercanti dal tempio!”, è dedicato a una dea. Sri Meenakshi, forse un’incarnazione di Parvathi, la moglie ufficiale di Shiva, forse no. Figlia di un re, infelice e irrisolta nella sua femminilità perché tristemente nata con tre seni, seguendo la profezia di un indovino incontra l’uomo che la saprà amare, Shiva appunto, sul monte Kallasa. Perde felicemente un seno e fa del tempio di Madurai il luogo del suo amore. Ogni sera , da circa quattro secoli, i bramini le portano in camera da letto la statua del suo sposo.

Ma figlia di Madurai è anche un’eroina estrema, una sorta di dark lady, che la leggenda colloca intorno al sedicesimo secolo: Kannaki. Kannaki regala al marito, disperato e privo di risorse, la sua cavigliera d’oro perché la venda. Ma, nel frattempo, un ladro si introduce a palazzo e ruba le cavigliere della regina e il re, furioso, dà ordine di far giustizia sommaria di chiunque cerchi di vendere una cavigliera o ne sia visto in possesso: così, denunciato da un negoziante, viene ucciso il marito di Kannaki. Fuori di sé da dolore, la donna corre a palazzo e dimostra all’improvvido re il suo tragico errore: il rubino della cavigliera di Kannaki non è circondato da perle come quello della regina. La leggenda vuole che il sovrano, capito il sopruso, cadesse a terra morto per la vergogna, ma questo non bastò a placare Kannaki, la cui rabbia si trasformò in fuoco e bruciò tutta la città. Lei fuggì sulle montagne, ai confini del Kerala, dove ancora oggi viene venerata in un tempio.

Tuttavia gli altri due splendidi templi della zona, Tanjavur e Tiruchirupally, sono inequivocabilmente maschili, dedicati rispettivamente a Shiva e a Vishnu.

Shiva, mutamento, fragore, distruzione, vita, sessualità, fertilità, è adorato in uno dei templi di maggiore pulizia formale di tutta l’India (il “Brihadishwara” di Tanjavur): pietra nuda, nessun colore, nessun mercante, silenzi fra le sculture vecchie di mille anni. In tanto rigore, sotto la custodia di un immenso toro di pietra (Nandi, l’animale sacro a Shiva) svetta l’immenso lingam (pene sacro) del signore della vita: di pietra nera, è alto sessantre metri. Viene in mente l’ironica domanda che Jung, nel suo viaggio in oriente, poneva a Freud: tanto lavorio per capire come la rimozione nasconda la sessualità, ma quale messaggio segreto c’è dietro l’esibizione sacra della sessualità?

Vishnu, il puro, colui che alla fine dei tempi ci salverà sotto forma di cavallo bianco, che si è incarnato già almeno nove volte per la nostra salvezza e che gli indù, nel loro spirito sincretistico, identificano sia con Cristo che con Buddha, vive invece nel disordine, sociale ed architettonico del magnifico, immenso, coloratissimo, abitato di animali e mercanzie, tempio di Tiruchirupally (“Sri Ranganathswamy”). Colpisce il contrasto e colpisce anche l’ambiguità della dedizione degli dei alla salvezza degli uomini. L’incarnazione forse più importante di Vishnu è Rama, il dio per il quale si uccide, il protettore invocato dai più franataci, quello nel cui nome è stata abbattuta la moschea di Ayodya e che migliaia di musulmani perseguitati hanno maledetto. Il dio, per il cui culto, è possibile che mai si porti mai a compimento un canale fra India e Sri Lanka, utilissimo allo sviluppo del paese, ma malauguratamente sullo stesso tracciato dove, secondo il mito, starebbero le pietre del ponte costruito da Hanuman per sottrarre la bella Sita, moglie di Rama, al demone Ravana. Proprio oggi gli attivisti di Rama hanno proclamato grandi manifestazioni in tutto il Tamil Nadu, mentre i saggi sindacati della regione hanno indetto lo sciopero generale a sostegno del progetto.

Intanto Shiva, che non vuole salvare nessuno, al contrario è temibile, osserva il tutto immobile dalle ombre di Tanjavur, sotto le fattezze di un grande lingam di pietra nera.

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