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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Mayawati, la regina intoccabile

28 Agosto 2007
di Mariella Gramaglia

Brandisce una spada nella mano destra e, con la sinistra, tiene fermo sulla fronte un diadema a cuspide, d’oro e pietre preziose. E’ Mayawati Kumari, la regina “dalit” (intoccabile) dell’Uttar Pradesh, la presidente dello stato più grande e più influente dell’India, quello da cui i politici ambiziosi partono in scalata per il grande potere federale, per la carica di primo ministro o per altre poltrone istituzionali altrettanto prestigiose.
Di rara bruttezza rispetto ai modelli di grazia flessuosa e schiva delle donne indiane, Mayawati porta senza imbarazzo la pelle scura tipica dei “dalit”, il corpo pesante e muscoloso, i capelli anticonformisticamente di taglio maschile. Il sorriso sicuro, da vincitrice, conferisce personalità al tutto e il successo sembra far perdonare anche ai giornali blasonati la sua inconciliabilità con l’India educata, per bene, bramina di istinto, anche quando è di sinistra.
Non sa l’inglese, non è di mondo, in un comizio se ne uscì con “lasceremo sulle caste alte l’impronta delle nostre scarpe”, una frase che fece comprensibilmente scalpore, eppure la rivista “Outlook” la colloca nel pugno di indiani che cambieranno le sorti del paese e il quotatissimo “Hindu” ospita i suoi interventi politici. Prenderla sottogamba è impossibile: è la prima donna intoccabile presidente di uno Stato, di quale stato per giunta, senza contare l’ abilità con cui si è consolidata nel potere.
Il buon gusto non è il suo forte: ex insegnante e figlia di famiglia assai povera, pensa che ricchezza e potere vadano esibiti e non nascosti. Organizza feste di compleanno con centinaia di torte gigantesche cui partecipano migliaia di fans e si presenta letteralmente coperta di gioielli e diamanti, come una dea Parvati in processione. Eppure i suoi elettori poverissimi vanno in visibilio e le ragazzine intoccabili di Lucknow, la capitale dello stato, portano la sciarpa azzurro cielo buttata sulla spalla sinistra, esattamente come lei.
Non è nemmeno una perla di onestà, cosa peraltro rara fra i politici indiani. E’ sospettata di affari poco chiari nell’appalto di un’infrastruttura turistica e viaria intorno al “Taj Mahal” di Agra, il famoso sacrario dell’amore dedicato dall’imperatore moghul Shah Jahan alla moglie perduta. “La lacrima di eternità” – come la definì Tagore- avrebbe contribuito a fruttare alla signora un patrimonio personale di circa dieci milioni di dollari.
Ma allora quale è la sua carta che vince? L’estrema ambizione e determinazione politica. Mayawati era già stata per due brevi periodi (nel 1995 e nel 2002) presidente dello stato, ma sempre in debolissimi governi di coalizione, ostaggio del BJP ( il maggior partito della destra) che la rovesciava al primo stormir di vento.
Questa volta, nelle elezioni del maggio scorso, con il suo “Partito delle maggioranza del popolo” (BSP), la presidente ha cambiato strategia. Ha affittato tre elicotteri, uno per sé e due per i suoi luogotenenti più fedeli: al primo ha affidato l’elettorato musulmano, al secondo nientemeno che il compito di costruire l’alleanza con i bramini sul suo terreno. Ha sbaragliato tutti, ha vinto le elezioni con la maggioranza assoluta e il povero Rahul Gandhi, quarta generazione di tanta dinastia, non è neanche riuscito a conquistarsi un seggio. Lei, epica, ha commentato: “quando le aquile decidono di volare, volano contro il vento e non con il vento”.
Dove volerà Mayawati? Dove la portano le sue immense ambizioni e la potenza di un partito “pigliatutto”, senza un programma preciso , che può fare alleanze con chi vuole. “Non siamo un partito intoccabile” – è un’altra delle sue trovate politiche. Difficilmente volerà in soccorso degli degli oppressi, di quei “dalit” senza futuro che la osannano alla stessa maniera con cui per poche rupie fanno propri i sogni di Bollywood.
Eppure il dramma vero dei “dalit” è ancora acutissimo in India a sessanta anni dall’indipendenza: sono la maggioranza assoluta dei duecento milioni di indiani che patiscono la sottonutrizione e la malnutrizione, ma sono molto di più che poveri. Sono umiliati e offesi con la copertura di pregiudizi religiosi che li consegnano all’isolamento e alla repulsione altrui: nel solo Gujarat cinquantamila “dalit” puliscono e sturano manualmente le fogne e un recente progetto di meccanizzazione di questo orrendo lavoro non è andato in porto “perché inutile”. L’attuale presidente del consiglio ha parlato coraggiosamente di una situazione simile a quella dell’apartheid dei neri nel Sud Africa prima di Mandela, ma molti gli hanno dato sulla voce.Oggi Mayawati, nella sua teatralità grandiosa, vuole dedicargli a Lucknow un colosso di pietra più alto della Statua della Libertà. Devotamente pagana, come una parte non piccola dell’India di oggi, di Ambedkar, del suo rigore di giurista, della sua grandezza e generosità, probabilmente sa poco e ha letto ancor meno. Le basta far sognare con le immagini, come quella del dio elefantino Ganesh che è il simbolo del suo partito, dio giocherellone, dio dei traffici e dei mercanti.
Apparso sulla “Stampa” il 23 agosto

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