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Ela Bhatt, la leader indiana
che ha fatto crescere nuove leader

20 Agosto 2007
di Mariella Gramaglia

Ela Bhatt, la mitica fondatrice di Sewa, non è più segretaria generale dell’associazione dal 1994. Non è in pensione – ci tiene a sottolinearlo. Ha scelto di fare un passo indietro rispetto all’organizzazione, di cedere la mano a un gruppo dirigente più giovane, di ascoltarlo e consigliarlo da lontano e di dedicare molto tempo allo studio e alla scrittura. Cosa rara per le persone di potere – ed Ela Bhatt è stata un esempio per il movimento femminista e sindacale di tutto il mondo, oltre che membro del parlamento federale e autrice della più importante inchiesta parlamentare sulle donne dell’India indipendente – se ne è allontanata con grazia e semplicità, alla ricerca di qualcosa di più profondo.

L’anno scorso ha scritto un gran bel libro, una sorta di autobiografia collettiva: Ela Bhatt, ”We are poor,but so many: the story of self employed women in India”, Oxford University Press, New Delhi. A breve sarà pronta a traduzione spagnola e il libro verrà diffuso in America Latina dove Ela ha molte amiche e seguaci e dove ha fatto il suo debutto nel dibattito internazionale del movimento delle donne durante la conferenza di Città del Messico del 1975. L’anno prima Sewa aveva fondato la sua banca di microcredito, sicuramente la prima in India e forse anche altrove, e l’interesse per questa innovazione, che farà poi tanto discutere, era immenso.

Il libro segue il ritmo dell’azione collettiva: la nascita di Sewa, la fondazione della banca, l’ organizzazione delle lavoratrici più fragili, la crisi radicale della classe operaia maschile, le lotte contro i pregiudizi di casta, la separazione traumatica dal sindacato dei tessili, la crescita del nuovo gruppo dirigente. L’unica concessione al privato è uno straordinario omaggio all’amore coniugale, insolito nel libro di una femminista, per di più indiana, figlia di una cultura dove da generazioni il marito è un destino, non una scelta. Ma con Ramesh, gandhiano come lei, la giovane Ela ha imparato nel lontano 1949 le fatiche della ricerca sociale negli slum, fra il terrore e le furie della madre. Più tardi ha fatto fiorire accanto a lui – “eterno studente e professore universitario compulsivo”- le sue doti di leader. Ne è stata sostenuta durante i giorni durissimi della rottura con il sindacato dei tessili: “considerala una benedizione”-continuava a ripeterle. Infine ne è stata abbandonata per una morte improvvisa che lei testimonia, esattamente come le donne indiane semplici e e tradizionali, rinunciando ai gioielli e indossando solo sari chiarissimi. Eppure la sua casa, dove ci riceve, insolitamente luminosa e chiara per l’India terrorizzata dal sole, è uno scampolo di mondo: i libri più diversi, sculture e disegni di un genero americano che racconta l’India con il suo talento, disegni di nipotini di due continenti sulle pareti di una nonna indulgente. Approdiamo nella sua casa dopo una lunga mattinata di fotografie, di domande, di scambi di idee sedute sulle belle pietre grigie e rosate del Gandhi Ashram.

Ela Bhatt e Mariella Gramaglia

foto di Laura Salvinelli

Elaben (Ela-sorella, così si usa chiamarsi a Sewa) tutti parlano di un ‘India che cresce, che luccica persino, che si sviluppa. Ma questa India offre nuove opportunità alle sue donne? Tu come ti senti, ottimista o scettica?

Le donne? Le donne non sono omogenee. Quelle ricche, urbane, colte, hanno tante opportunità che prima non avevano: sono più informate, più motivate, hanno più aspettative. Hanno realizzato- cosa che prima non era – l’importanza dell’educazione e si buttano con passione nei lavori tecnici. Ma per la maggioranza delle donne non ci sono vere opportunità: le istituzioni formative sono sostanzialmente le stesse del periodo coloniale e ai britannici l’educazione di base, l’educazione del popolo non interessava affatto. Bisogna lavorare sodo per cambiare le cose e difendere la centralità della classe lavoratrice, ma io non sono scettica, anzi sono entusiasta del futuro. Le donne povere, dall’inizio degli anni novanta, non sono diventate più povere, anzi. Ma il gap con chi ha conosciuto un benessere mai vissuto prima, quello sì, è cresciuto. Io penso che Sewa si sia rafforzata anche per questo, perché le donne vedono la speranza oltre la miseria. E poi due terzi della popolazione è fatta di giovani, questa è una grande opportunità. Ciascuno deve godere della libertà del paese.

Tu ti consideri femminista, vero? Un femminismo tutto tuo, tutto indiano, oppure un femminismo del mondo, che impara dal mondo e parla al mondo?

Femminismo per me significa credere nella profonda uguaglianza della differenza. Se penso al mondo dal punto di vista dello sviluppo e della povertà penso che le donne sono le leader dello sviluppo. Sul piano delle relazioni internazionali concrete per me è stato decisivo il rapporto con i sindacati. Il nostro ruolo nel movimento sindacale oggi è riconosciuto ovunque, a livello federale indiano, come nelle assise internazionali. Siamo state noi a porre in quelle sedi il problema del lavoro informale, del lavoro non tutelato. Il 50% della massa di questi lavoratori, i più poveri del mondo, sono donne. E però abbiamo discusso anche le piattaforme rivendicative delle lavoratrici a domicilio con i sindacati dei paesi sviluppati: la nostra esperienza sul rapporto fra vita e lavoro all’interno della casa è risultata molto utile.

Se per femminismo si dovesse intendere essere contro gli uomini, beh non è il mio approccio. Io non sono contro nessuno, sono per lavorare insieme. Qui gli uomini hanno sofferto moltissimo, sono stati messi all’angolo dalla produzione: bisogna coinvolgerli. Gli uomini spesso non sanno comunicare, non sanno mettere la testa sulla spalla di nessuno: quando sono disperati sanno solo bere ed esibire il loro potere in famiglia.

Nelle caste basse le donne e i bambini lavorano: se il marito è violento possono anche andarsene. Paradossalmente sono meno esposti al potere maschile della piccolissima borghesia ancora tiranneggiata dalla dote. Io sono del parere che il potere delle donne deve fondarsi nell’economia, che bisogna sostenere la proprietà delle donne: noi, nella nostra banca, intestiamo i conti solo alle donne. Se proprio il marito ci tiene, mette il suo nome dopo quello della moglie. I beni sono più forti e protetti nelle mani delle donne: se i governi dei paesi poveri lo capissero, se questa diventasse una politica generale, molte cose cambierebbero.Certo la schiavitù del consumismo può diventare anche per noi un rischio del futuro: crea confusione, fa perdere concretezza, mentre il progresso vero è una cosa molto semplice, che tocca dentro.

Elaben, tu nel 1994 ti sei volontariamente allontanata da un ruolo di grande prestigio. Non è una cosa così comune. Perché l’hai fatto?

Penso che Sewa aveva raggiunto uno stadio nuovo e io pure: era il momento di farlo. Avevo cinque giovani leader con molte potenzialità: io sono brava a capire questo genere di cose. Avevo fiducia che Sewa sarebbe cresciuta anche di più con un po’ di aria fresca. Del resto non é mica la proprietà di mio padre che io ho ereditato! E poi volevo fare un esperimento. Le ho chiamate, tutte e cinque, e ho detto: chi sarà il segretario generale? Non illudetevi che sarò io a decidere la mia successora, decidete voi. Sono uscita e loro hanno deciso per una direzione collettiva, in cui ciascuna di loro avrebbe sostenuto per tre anni l’incarico di segretaria generale. Poi dopo dieci anni abbiamo avuto le elezioni e c’è stata un’altra svolta: la prima segretaria generale di Sewa di provenienza operaia.
Del resto chi è un leader se non chi fa crescere altri leader? Io non ho perso nulla.
Poi, certo, conta la mia visione della vita. Per me il lavoro è il punto cruciale. Anche Dio lavora. Secondo lo stesso principio del sole: il sole scalda, l’acqua produce le nuvole, cade la pioggia, crescono le coltivazioni e il primo gruppo di spighe si offre agli dei, così anno dopo anno. Ogni cosa che la natura dà, va restituita e curata. Se abbiamo più di quello che ci serve non è karma, ma nutrimento del peccato. La semplicità è il più alto valore.

L’associazione fra la semplicità e Gandhi è inevitabile. Il più brutto giorno dell’India, il 30 gennaio 1948, tu avevi tredici anni. Te lo ricordi?

Giocavo in giardino da piccola e vedevo sempre passare Gandhi davanti a casa mia perché il presidente del Congresso abitava sei case dopo di me e si vedevano spesso. Poi quel giorno. Erano le quattro del pomeriggio. Mo padre torna a casa pallido e teso. “Una stella è caduta”- ci dice. Poi ci attacchiamo alla radio con il terrore che fossero stati i musulmani: sarebbe stata la fine dell’India. Fortunatamente, se si può dir così, erano stati i nostri fondamentalisti indù.

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