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I 300 di Leonida e noi

11 Maggio 2007
Questo articolo è stato pubblicato sul n.79 di “Notizie minime della non violenza in cammino"
di Anna Maria Crispino

La fabbrica dell’immaginario è un ottimo osservatorio per cogliere quei segnali che registrano o in qualche caso anticipano tendenze in atto. E che la tendenza – una delle tendenze forti – sia quella di una rinnovata legittimazione della guerra trova ampia conferma in un film come “300” che ha spopolato al box office, intasato i blog e mobilitato firme eccellenti per le critiche anche in Italia.
Tratto dal graphic novel di Frank Miller, il film di Zack Snyder è certamente un’esperienza visiva di primissimo ordine per chi ama il genere. Confezionato al meglio delle possibilità tecnologiche disponibili, “300” veicola un messaggio chiaro e semplice: la guerra non solo è giusta, non solo è nobile ma è anche bella.
La storia, com’è noto, è quella della battaglia delle Termopili, quando nel 480 a.C. i 300 spartani guidati dal re Leonida riuscirono a bloccare per giorni l’immenso esercito del persiano Serse. L’attendibilità storiografica del racconto non ha molta importanza, come sempre nella Storia e nelle storie che l’industria del cinema made in Usa inghiotte e risputa: quello che conta è la tipizzazione dei personaggi e l’estrema semplificazione del racconto, cui molti critici – compreso Roberto Saviano – hanno attribuito una qualità epica per giustificarne il manicheismo.
Nel film Leonida è il campione di Sparta – cioè della Grecia e per estensione dell’Occidente e dunque della civiltà tout-court – l’uomo perfetto nel corpo e nella mente, addestrato alla sofferenza come un vero marine, capace di sacrificare la sua vita e quella dei suoi compagni per un ideale: niente di più e niente di meno che la libertà.
Vi ricorda qualcosa?
Dall’altra parte c’è Serse – cioè l’Altro, l’Oriente, la barbarie – raffigurato come un mostro: alto 3 metri, sessualmente ambiguo come una inquietantissima drag queen, la pelle lucida d’olio trafitta dai piercing, le unghie laccate di blu, ricoperto d’oro e circondato da belve e schiavi.
Leonida e Serse: in questo “corpo a corpo” tra maschi, ogni elemento, ogni dettaglio, serve a indicare chi sono i buoni e chi i cattivi. I soldati persiani sono una moltitudine senza volto, e quelli che alla fine vediamo in primo piano – detti gli “immortali” ma che invece muoiono a bizzeffe – hanno una maschera d’argento sul viso che li fa assomigliare a spietati guerrieri ninja, macchine da guerra cyborg che nascondono il disfacimento dei corpi.
I 300 di Leonida sono praticamente nudi – e quindi puri, esposti – tutti muscoli e sudore, sangue e coraggio contro la marea dei senza volto. Useranno i cadaveri dei nemici uccisi – in scene perfettamente splatter anche se non gratuite nel contesto del racconto – per innalzare un muro. Barriera che serve a costringere il nemico a infilarsi nella stretta gola dove la differenza numerica non conta più: sono intelligenti questi spartani, non mera forza bruta, ci dicono le immagini.
Odiare e combattere, questa la missione. Non si arretra di un passo, non ci si arrende. E tale è la giustezza della loro causa, che potranno essere battuti solo con l’inganno – e da un altro “mostro”, peraltro, uno spartano deforme, Efialte, salvato da bambino dalla pietà dei genitori. La legge della città, lo sanno tutti, prevedeva che i non perfetti fossero gettati dalla rupe Tarpea appena nati: la perfetta virilità non sopporta la mostruosità che oggi chiamiamo disabilità.
“300” è politicamente scorretto, certo. Ideologicamente peggiore dei peggiori western di John Wayne – se non proprio semplicemente fascista come lo definisce Marco Lodoli su “Diario”. Discorsivamente schierato senza sbavature sulla versione statunitense dello “scontro di civiltà”. Ma ancora, se possibile, non è questo che conta di più. Quello che davvero sgomenta è la perfetta confezione – e dunque l’efficacia comunicativa – di un immaginario che torna a fondarsi saldamente su quelle coppie di opposti assoluti in cui non c’è spazio per la relazione: bene /male, libertà/schiavitù, onore/tradimento, convenienza/sacrificio, uomo/donna.
E’ da questi binomi – che il femminismo e il pensiero della nonviolenza hanno tenacemente, efficacemente smontato – che nascono la violenza, la spersonalizzazione dell’altro-nemico, la paura e l’odio per la diversità. Insomma la guerra.
“300” disegna lo spazio simbolico della virilità – “Questa è Sparta!” – dentro la quale il nemico può solo essere annientato e gli altri uomini – quelli che non combattono, come i filosofi ateniesi – sono considerati pavidi e effeminati.
E le donne?
Mogli fiere dei loro sposi e fattrici di combattenti. Nello scontro tra diversi modelli di virilità messo in scena nel film di Snyder, l’unica presenza femminile, oltre alla prostitute sacre dell’oracolo, è la regina Gorgo che affronta la tempesta di testosterone da cui sono afflitti Leonida e i suoi 299 compagni con la fierezza della moglie dell’eroe designato: gli regala l’ultima notte d’amore prima della battaglia e lo saluta, sapendo che non tornerà e che a lei non resterà altro da fare che addestrare il figlio bambino alla dura legge di Sparta.
Si può decidere di non andare a vedere un film come “300”. Si può anche discutere se tale sfacciata riproposizione di un virilismo guerresco sia un segno di forza o di debolezza di un patriarcato che qualcuno aveva già dato in agonia se non proprio sepolto. O discettare sulla valenza di una storia riproposta come un mito fondativo dell’Occidente democratico ma che a tratti appare invece come una parodia.
Quel che è certo però è che questo tipo di narrative è in grado di produrre figurazioni – per usare un termine caro a Rosi Braidotti (Madri, mostri e macchine, manifestolibri 2005) – che raccontano di più e meglio di ogni altro medium quanto la posta in gioco più grossa sia il terreno dell’immaginario. Anche perché, a leggere le interviste concesse dal regista e dell’autore, risulta evidente che “300” non è il prodotto di un consapevole disegno politico, né uno strumento di voluta propaganda dell’imperialismo culturale Usa: è piuttosto il prodotto di una cultura alimentata dalla paura, dalla porosità dei confini, materiali e simbolici, di un sé che non riesce ad accettare la sua stessa complessità e che dunque semplifica, riduce, essenzializza conflitti che pure ha creato, ma che non ha gli strumenti per gestire.
Il Leonida di Snyder-Miller è un arrogante, ma deve farsi vittima di un’aggressione, rappresentare il nemico come potentissimo, ma privo di onore perché vince usando la corruzione. La sua è una battaglia persa, ma prepara una vittoria più grande, quella finale. Che non sarà mai l’ultima, perché è questa la logica della guerra.

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