Locale / Globale

relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Adotta una candidata (a distanza)

3 Maggio 2007
di monica luongo

La Francia decide tra Sarko e Ségolène chi sarà la sua/il suo presidente. Hauwa, invece, non ce l’ha fatta. Le elezioni appena terminate in Nigeria sono state una disfatta: una autentica farsa dall’inizio alla fine, utile alla prosecuzione dell’arricchimento dell’entourage del presidente uscente Obasanjo, che non ha badato a spese per assicurarsi ancora per molti anni il controllo indiretto del paese. L’aspetto più segnatamente negativo è la rassegnazione che anima i cittadini e le cittadine: non è cambiato niente prima, non cambia niente ora, mentre la comunità internazionale si ferma a guardare.
E chi si candida, soprattutto le donne, non ha alcuna preparazione per sostenere una campagna elettorale; soprattutto, però, non ha i mezzi per farlo.
Così, indipendentemente dal fatto che continueremo a domandarci se i modelli di democrazia che esportiamo siano applicabili ovunque con un minimo di successo, proponiamo alle politiche italiane che si candideranno alle prossime elezioni di sostenere “a distanza” una candidata di un paese in via di sviluppo. Destinando sì una quota minima (nulla a che vedere con i costi nostrani) alla collega straniera, ma soprattutto trasferendo esperienze e competenze.
Le politiche italiane dimostrerebbero così di operare appieno nei grandi movimenti femminili transnazionali e avrebbero modo di toccare con mano una realtà di cui molto spesso siamo solo brave a discutere. Ci sono paesi, come in parte è la Nigeria, dove l’emancipazione e il benessere di vita femminile sono istanze non più rimandabili; dove il lavoro che le donne svolgono nei paesi post industriali rischia di perdere il suo valore essenziale senza la possibilità di “lavorare insieme” per il benessere di altre donne più svantaggiate; è l’unico schema politico che potrebbe permettere alle donne di uscire dal gap della politica al maschile.
Dopo un mese trascorso nel nord della Nigeria, in uno stato dove vige il ferreo controllo della sharia e dove donne e uomini in pubblico definiscono la legge religiosa un “way of life”, l’hall dell’Hilton della capitale – donne vestite come par meglio a loro, truccate e con le acconciature più incredibili, salgono e scendono con le ascensori in cerca di clienti – mi è sembrato pieno di vita.
Non che io consideri la prostituzione come il migliore dei lavori possibili per una donna, ma l’esperienza in uno stato “velato” ha messo a dura prova i miei relativismi: pur sforzandomi ogni giorno di capire punti di vista diversi dai miei anni luce, non sono mai stata abbandonata dal senso di oppressione che me ne veniva: incontrando uomini che non mi stringevano la mano, che evitavano il mio sguardo, pur mostrando interesse per le cose che dicevo, ma soprattutto abbracciando e sorridendo a donne che il disagio possono solo confessarlo a bassa voce e molto riservatamente.
Ho studiato a lungo i programmi di cooperazione internazionale promossi con le ong locali e rivolti all’affermazione dei diritti delle donne all’interno della sharia: non mi hanno convinto, non in Nigeria (differentemente da quanto scritto in precedenza sull’Indonesia e sulla Malesia, dove è molto più manifesto il percorso di emancipazione delle donne), dove le necessità primarie (acqua, cibo, salute, lotta alla povertà) sposano l’arretratezza culturale e non permettono – non ancora – di vedere una via d’uscita.
Così cosa fa la donna occidentale – in questo caso io – che sforzandosi di essere politicamente corretta non vuole attribuire stigma ai differenti contesti con cui si trova in contatto? Proprio non ce la fa a comprendere questa diversità, perché vede la sofferenza, la totale mancanza di benessere di una parte di paese che non riesce a godere del denaro del business petrolifero, che non crede nell’istruzione, che fa della limitazione della libertà di agire, della corporeità, il demone che oscura la strada. Chi se ne va, nello stato di J., è uno che non si accontenta di quello che il destino gli ha riservato, è dunque un avido, un reietto.
Nell’Hilton di Abuja le quattro mogli di un agiato cliente sudano anche loro sotto l’ombrellone accanto la piscina: i bambini sguazzano nell’acqua col papà, loro bevono un frullato di ananas con le figlie più giovani, già coperte. Intorno a loro coppie non musulmane, qualche coppia gay discretamente appartata, e le tradizionali signore a caccia di clienti: ridono, hanno il rossetto e le cuffiette alle orecchie per sentire la musica. Lo so che non è proprio vero, ma mi sembrano così libere…

Featuring Recent Posts WordPress Widget development by YD