Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

Il valore dimenticato del lavoro

29 Aprile 2007
di Letizia Paolozzi

Che rapporto abbiamo con il lavoro oggi?
Durante il concertone del primo Maggio ci sarà quest’anno un minuto di silenzio per Felice Schirru, colpito da un tubo; Sante Cacciola, precipitato da una scala; Giovanna Curcio, bruciata viva e asfissiata, Annamaria Mercadante, asfissiata e bruciata viva. Un minuto di silenzio per i 1300 lavoratori morti nel 2006. Non viene calcolato il numero di lavoratori colpiti da malattie causate dalla nocività. “Riscopriamo gli operai quando fischiano a Mirafiori o muoiono nei cantieri“ ha detto Gavino Angius all’ultimo congresso Diesse di Firenze.
Il lavoro è crudele.
In Francia, a Yvelines, nel più grande centro Renault, dove lavorano 12.000 salariati, soprattutto ingegneri e tecnici, in due anni quattro persone si sono suicidate. Il tessuto sociale che sosteneva i lavoratori sta franando. Le nuove forme di organizzazione del lavoro mettono in competizione i lavoratori. Solidarietà, fiducia, stima reciproche si allentano. Chi soffre si sente sempre più solo.
Il lavoro è disperato.
La globalizzazione ha separato nettamente esigenze personali e esigenze professionali: il destino degli individui non domanda niente al futuro. Inutile pensare di cambiare il mondo, incastrato come sei dentro un McDonald’s oppure in un call center. Disoccupati, precari, si sono trovati un loro personale santo protettore: San Precario, nato il 29 febbraio, con aureola al neon, la cui statua apre le mayday e le Euro May Day.
Il lavoro non ha più valore.
Nella vita reale l’individuo non si definisce più totalmente come lavoratore. Pier Luigi Bersani, ministro dello Sviluppo Economico, ripete che l’operaio è anche consumatore.
Philippe Vaan Parijs, presidente dell’Associazione internazionale per il “basic income“, batte da anni sulla richiesta di un reddito minimo universale. Libertà dal bisogno – lo jus vitae di Rawls – per il disoccupato e per la casalinga; per il ricco e per il povero. Una forma di tutela individuale: per l’operaio con famiglia e per la donna sola, a prescindere dal lavoro svolto. Dunque, senza obbligo di contropartita.

Ma la rivendicazione di reddito, a prescindere dal lavoro, disegna un’altra società?
In un articolopubblicato su Liberazione del 10 marzo scorso, il gruppo di donne di a/matrix riprende il punto del reddito garantito. “Noi oggi non chiediamo il salario solo per – e quindi contro – il lavoro domestico, ma un reddito per l’autodeterminazione per tutt@ come strumento per sovvertire la divisione sessuale del lavoro e per scardinare l’impianto familista, lavorista e nazionalista dello stato sociale. Per potere uscire dalla famiglia e dal lavoro è necessario pretendere un reddito sin dal momento della nascita, scisso da ogni stato civile e condizione produttiva. Solo il riconoscimento del reddito anche ai minorenni libererebbe le donne del peso che ancora
sopportano per la cura dei figli“.

Che ne è dei desideri investiti da uomini e donne nel lavoro?
Lia Cigarini che da anni ci ragiona insieme ad altre (in “Parole che le donne usano“, “Tre donne e due uomini parlano del lavoro che cambia“ nei Quaderni di Via Dogana e nel saggio “Un’altra narrazione del lavoro“, pubblicato su Critica marxista e su questo sito), considera il lavoro “lo spazio pubblico e politico per eccellenza“. Tuttavia le donne compongono intorno al lavoro una storia diversa da quella degli uomini. Per esempio, avere tempo per se stesse, pur guadagnando meno soldi. Questa storia, dunque, intreccia i desideri e prova a tenerli insieme, rompendo con la secolare separazione tra produzione e riproduzione, tra il dentro e il fuori, tra la casa e i commerci sociali.
Nel gruppo delle Città Vicine colgo molte assonanze quando scrivono che “nel tempo della globalizzazione, ci piace pensare il mondo come un luogo in cui ci si senta di “essere a casa“, così che ciascuno, ciascuna senta la necessità di avere cura del mondo, così come della casa comune“.

Io non sono mai stata lavorista. So bene che i salari sono troppo bassi, le diseguaglianze terribili, i contenuti spesso umilianti, ma ho l’impressione che per realizzare una “buona vita“ dal lavoro non si possa prescindere.

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